RICORDATI DI ME, MA DIMENTICA LA MIA SORTE:
IL DESTINO MUSICALE DI DIDONE
di Michela Mercuri
Nel IV libro dell’Eneide, Virgilio impreziosisce l’epos con un commovente amore, dal sapore tragico e dai toni elegiaci, che ha consegnato al melodramma una delle più celebri eroine del mito e, forse, della storia. Se tutti conoscono la vicenda dell’affascinante sovrana di Tiro sedotta e abbandonata, pochi sanno che, prima di Virgilio, seppur nell’ambiguità delle fonti, Didone esisteva già e non aveva nulla a che fare con Enea. Servio, Ad Aen. 4, 36, scrive che dopo la morte di Sicheo e le pretese di Iarba, che la voleva in moglie, la regina, fatta costruire una pira, si gettò tra le fiamme per attestare la fedeltà al defunto sposo. Il suo nome era Elissa ma, poiché ebbe il coraggio di compiere un gesto prettamente virile, da allora fu chiamata Didone. Secondo Timeo di Tauromenio, FGH 82 Jacoby, il nome cartaginese Didone, sostituito al fenicio Elissa, è connesso invece alle travagliate peregrinazioni che precedono la fondazione di Cartagine. Analoghe le ragioni del suicidio e la sua attuazione.
Già Nevio, nel suo Bellum Poenicum, dovette intrecciare la storia di Didone con quella di Enea e accennare alla funesta relazione amorosa. Ma in un momento storico nel quale Roma era minacciata dall’esercito di Annibale, nel pieno della seconda guerra punica, la sua ricostruzione dei fatti, dai chiari intenti celebrativi e propagandistici, non può essere considerata né obiettiva né disinteressata.
Anche in seguito alla diffusione dell’Eneide, la figura di Didone fu sdoppiata in due diverse tradizioni. La prima, che affonda le sue radici nella storia, è edificante, non menziona l’eroe troiano e descrive la regina come risoluta e incorruttibile; l’altra, letteraria, sfrutta l’ambiguità presente, soprattutto a livello linguistico, nel poema virgiliano, per focalizzarsi sulla passione lussuriosa.
Si pensi a Dante, che confina la regina cartaginese nel secondo cerchio infernale, accanto a Cleopatràs, e la identifica non con il suo nome ma attraverso una perifrasi che sovrappone il peccato alla peccatrice.
Inf. V, 61-62. L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo.
Una chiave di lettura allegorica ci suggerisce che la relazione tra Enea e Didone si configura, nel poema dantesco e, in generale, nel Medioevo, come una lotta tra ragione e passione, che è il tema nodale del V canto. Anche nel Conv. IV, XXVI, 8, Dante contrappone colei che regala «piacere e dilettazione» a Enea, il quale «partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa».
Tra le varie interpretazioni, è senza dubbio la Didone virgiliana ad aver riscosso più fortuna nel corso dei secoli, come sostiene Macrobio, Sat. 5, 17, 4-6, quando scrive che
la favola di Didone innamorata passa per vera sulla bocca di tutti: perfino pittori, scultori, tessitori di arazzi sfruttano questo argomento più di ogni altro nelle loro figurazioni come se fosse l’unico motivo di decorazione, e non sono da meno gli attori che lo divulgano continuamente in rappresentazioni mimiche e cantate.
Queste parole appaiono non solo veritiere ma addirittura profetiche se si pensa alla fioritura dei drammi su Didone, confluiti, a partire dal ‘600, in quel genere teatrale che, attraverso il canto lirico e la musica, ha celebrato sul palcoscenico i grandi eroi del mito e dell’epos: il melodramma.
Il libretto di Metastasio, intitolato Didone abbandonata, fu musicato decine e decine di volte e, dal 1641 al 1951, la regina di Tiro è protagonista in più di settanta opere liriche. Una delle più celebri è Dido and Aeneas, composta dal più grande compositore inglese del XVII secolo, Henry Purcell (1659-1695). Si tratta di un’opera particolare, se rapportata alle produzioni italiane. In Inghilterra, infatti, il nuovo genere musicale incontrò, in principio, l’opposizione del pubblico, che preferì l’inverosimiglianza di uno spettacolo interamente cantato solo agli inizi del Settecento. Quasi tutti i lavori di Purcell possono infatti essere considerati “semi-opere”, si compongono cioè di inserti musicali, spesso accompagnati da balletti, uniti a parti recitate. La musica, come accadeva nel teatro italiano del Cinquecento, riempiva lo spazio tra i vari atti, al pari degli intermedi, oppure aveva funzione realistica: era riservata a quei momenti nei quali l’azione stessa richiedeva un intervento sonoro. In tutta la produzione di Purcell, l’unica a poter essere definita un’opera interamente musicata, anche se dalle dimensioni notevolmente ridotte, è Dido and Aeneas. Il libretto fu scritto da Nahum Tate (1652-1715), poeta e storiografo regio, ricordato per il suo adattamento del Re Lear shakespeariano. La prima rappresentazione ebbe luogo in un collegio femminile londinese, presumibilmente l’11 aprile del 1689, ma i musicologi hanno recentemente proposto una retrodatazione. La Dido scelta da Purcell, interpretata da un mezzosoprano, è la Didone virgiliana, piagata da un amore folle e maledetto che la porterà al suicidio.
Il lavoro librettistico e musicale è stato influenzato dalla tradizione italiana e francese; infatti, proprio alla maniera di Lully, si apre con un prologo, oggi perduto, in ossequio alla prassi della tragédie lyrique, e si compone di tre atti, alla maniera italiana. Forti, inoltre, gli influssi di Cavalli e degli oratori di Carissimi. Le melodie hanno un tono fresco e accattivante, impregnato dello spirito delle canzoni popolari inglesi. “Pursue thy conquest, love”, nell’atto I, è uno straordinario esempio di pittura tonale, evoca cioè i rumori e il trambusto della caccia mediante figure che richiamano i corni e i continui echi tra la melodia e il basso. Poco frequenti le arie col da capo, tipico invece è l’uso dell’antica forma della passacaglia, della quale il maggior esempio è “When I am laid in earth”, una delle più commoventi espressioni del dolore tragico in tutta la storia del melodramma. L’aria, che prelude al suicidio della protagonista, è scritta in un tenebroso sol minore, definito da Purcell la “tonalità della morte”. In questa scena, atto III 2, Didone, in fin di vita, chiede alla sorella, che nel melodramma non è Anna ma Belinda, di accoglierla sul suo petto, con una variazione rispetto al modello latino. Nell’Eneide, infatti, la regina, trafittasi già con la spada di Enea, non ha la forza di parlare ed è quindi Anna a dover agire. La richiesta trova espressione nel verso del recitativo on thy bosom let me rest, corrispondente al latino semianimemque sinu germanam amplexa fovebat / cum gemitu, Aen. IV, 686-687. La Didone di Purcell, dunque, non cede la scena alla sorella, ma rimane la prima donna fino alla fine. Belinda, in questo momento, tace, perché lo strazio dell’abbandono deve essere espresso in tutta la sua potenza. L’attenzione del pubblico si concentra esclusivamente sull’eroina, protagonista indiscussa fino all’ultima nota. Non a caso il titolo dell’opera è Dido and Aeneas, e non Aeneas and Dido. La morte si consuma sul palco, davanti agli spettatori, mentre il canto si spegne; in Virgilio invece il suicidio si svolge dietro le quinte, ed è raccontato al lettore attraverso le grida delle ancelle, la Fama che imperversa per la città sgomenta e, soprattutto, la disperazione di Anna. Comune al poema latino è invece la concezione della morte gradita, legata all’immagine della terra. L’ultimo verso cantato, “death is now a welcome guest! When I am laid, am laid in earth/ «la morte ora è per me un’ospite gradita. Quando giacerò sotto terra», crea un ponte con il latino sic, sic iuvat ire sub umbras […] et nunc magna mei sub terras ibit imago/ «così, così desidero discendere tra le ombre […] e ora la mia ombra gloriosa andrà sotto terra», Verg. Aen. IV, 660, 654.
Diverso, rispetto all’opera italiana coeva, il trattamento riservato da Purcell al recitativo, lontano dal recitativo secco italiano. Lo stile è piuttosto quello di un arioso libero, secondo il musicologo inglese E.J. Dent, che dischiude fioriti passaggi espressivi e conserva sempre un’organizzazione ritmica chiara e armonica. Per amplificare l’atmosfera del tormento Purcell si servì di un principio formale ampiamente utilizzato sia in Italia che nella Francia di Lully. Già Monteverdi lo aveva sperimentato per il lamento della ninfa. Si tratta del basso ostinato, che si dispiega nella formula di un tetracordo discendente. Il motivo cromatico si ripete costantemente fino all’esplosione del lamento; le diverse possibilità di relazione tra le entrate vocali, asimmetriche, e gli archi accrescono l’efficacia del basso di ciaccona. All’inizio dell’aria, prima ancora che il verso si concluda, la voce sembra singhiozzare in un delicato melisma sulla ripetizione del verbo laid. Il solo terzo verso, No trouble in thy breast, presenta un inizio che coincide con l’ostinato, dilatando così l’effetto d’enfasi accresciuto dall’appoggiatura. Il tritono, poi, adombra la frase. Le pause nella melodia, gli intervalli discendenti della voce e il leggerissimo melisma su “ah”, per riprodurre il sospiro, sono le principali premonizioni di una morte che viene annunciata dal canto, prima ancora che dal testo. La seconda parte dell’aria è interamente costruita sull’ossessiva ripetizione della supplica “remember me”, in un crescendo di colore e d’altezza che vola fino sol sopra al pentagramma, colmo melodico di tutta l’aria. Intanto l’accompagnamento si dirige con prepotenza verso il basso, originando un contrasto con la voce, che, invece, scalpita per salire di registro. Ma lo fa attraverso salti improvvisi e ripensamenti verso i suoni gravi, a voler vocalmente inscenare la discordia nell’animo di Didone.
Un’incantevole linea vocale intona l’ultima, profonda, preghiera della regina, “remember me, but ah! forget my fate/ricordati di me ma dimentica la mia sorte”. La voce fluttua sopra al pentagramma, con una melodia semplice ma di forte impatto, e gode, per l’ultima volta, dell’apertura sugli acuti, prima di scivolare inesorabilmente e placarsi in un sol centrale col punto.
Le nubi scagliano la loro ombra sulla tomba della grande regina di Cartagine. Il coro canta in suo onore, chiedendo agli Amorini di vegliare sempre su di lei e di spargere rose morbide e delicate come il suo cuore.
Sulla danza dei Cupidi, le luci si spengono e cala il sipario su un’opera che, pur lontana dal mondo classico, riesce a conservarne la preziosità, al punto che, assaporando l’aria di Didone e ripensando all’Eneide, verrebbe da esclamare, Aen. IV, 23: «adgnosco veteris vestigia flammae./ Riconosco i segni dell’adusa fiamma.»