Le recensioni di Orazio Antonio Bologna
A oriente di qualsiasi origine di
Annalisa Rodeghiero
La poesia italiana, che, prosecuzione d’un glorioso passato molto vicino, prolifica all’inizio del nuovo secolo, non è, per molti aspetti, facilmente accessibile, né inquadrabile in schemi preconcetti o, per meglio dire, precostituiti: emergono, infatti, personalità con caratteri così diversi e distanti tra loro, che è difficile ricondurle e inserirle all’uno della Poesia, intesa secondo i canoni della cultura alessandrina. La produttività, a scapito della qualità, sorprende per la facilità, con la quale si dànno alle stampe raccolte spesso insipide; e, data la varietà dell’interpretazione, lontane persino dalla lingua italiane, della quale emergono solo pallide reminiscenze, spesso deturpate e mutilate da ghiribizzi innovativi, o creduti tali. La grande lirica, che prende le mosse dalle consapevoli e intelligenti innovazioni di Carducci e di Pascoli e passa per Ungaretti, Saba e Montale sembrerebbe tramontata per sempre, se di tanto in tanto, non erompesse sulla scena una personalità fornita di solida statura: è il caso, non fortuito, del volume pubblicato da Annalisa Rodeghiero, la quale titola scientemente la sua fatica A oriente di qualsiasi origine.
Questo volume, che raccoglie riflessioni disseminate nel corso di lunghi anni e assidue meditazioni sulla poliedrica realtà dell’Uomo durante il percorso terreno, anche se da un lato dimostra a chiare lettere che la struttura poetica è insita nella mente umana, come da più parti si afferma, dall’altro rende consapevole il lettore che non tutti per motivi intrinseci sono in effetti poeti e che una certa poesia, per una particolare sensibilità, non può che sgorgare da una particolare cultura e sensibilità, incarnata nell’animo della donna. Per tal ragione il titolo, che potrebbe sembrare banale a una lettura superficiale, invia il lettore a una certezza indiscussa, verificatasi tra i Sumeri nell’ultimo quarto del terzo millennio prima dell’era volgare: richiama, infatti, il fruitore ad Enheduanna, poetessa accadica e sacerdotessa del dio Nanna a Ur. Figlia del re Sargon, Enheduanna è la prima donna, che nella storia dell’umanità scrive e firma la sua poesia, come attestano fonti contemporanee e successive, quando parlano della sua opera, scritta in sumerico e intitolata L’esaltazione di Inanna.
In ambito ebraico il titolo di poetessa si potrebbe scorgere nell’appellativo di profetessa dato ad alcune donne, come Ester, Debora, Anna e Abigail. Queste, a volte insieme con gli uomini, vivevano presso i templi correlati con le corti reali; rivolgevano suppliche alla divinità, protettrice della casa regnante, ed erano soprattutto consigliere del re, cui promettevano prosperità e successi soprattutto in guerra.
Le poetesse ebraiche, a differenza di Enheduanna, sono essenzialmente legate al desiderio della maternità, tema molto ricorrente e spesso molto sofferto, frustrato, o avvertito come tale, secondo l’autorevole parere di M. Gluzman. Questo innato sentimento, come in controluce traspare anche dalle liriche della Rodeghiero, è presente nei versi delle cosiddette «madri fecondatrici» della poesia ebraica al femminile, come si evince da Anda Amir-Pinkerfeld, Rachel, Esther Raab, Yocheved Bat-Miriam, le quali, emerse solo in tempi relativamente recenti, hanno portato un contributo fondamentale all’antica letteratura ebraica.
Collegato a siffatti legami, per lo più accantonati, il volume della Rodeghiero, nel vasto e complesso rigoglio della letteratura contemporanea, assume un ruolo del tutto particolare, segna una tappa, costituisce una pietra miliare nella produzione poetica di alto livello e per contenuto e per politezza lirica della versificazione. Difatti l’usus scribendi e, in modo particolare, l’habitus cogitandi, qualità essenziale per chi si accinge a scrivere poesia, allontana e distanzia la poetessa dalla trita monotonia della produzione odierna. È più che ovvio che Annalisa non è la sola che torreggia come un gigante nel paesaggio della poesia attuale: altri ingegni di altissima levatura, sebben pochi, rari nantes in gurgite vasto, continuano con onore la gloriosa tradizione della letteratura italiana; ma questi, purtroppo, sono per lo più sconosciuti al grande pubblico.
Si impone, a questo punto, un cenno sulla complessa e coesa cultura di Annalisa, la quale nel corso della vita non si è limitata solo agli studi liceali e universitari, ma con vigile attenzione ha rivolto sempre l’animo alle menti pensanti sia antiche, sia recenti, seguendo quanto il suo ego cogitans di volta in volta le imponeva. Per cui da Omero e dai lirici greci, senza trascurare la poesia latina, attraverso il Medioevo e l’Umanesimo è approdata ai poeti più significativi della poesia italiana ed europea dell’Ottocento e del Novecento, i nomi dei quali si possono leggere in controluce, come una filigrana, pressoché in ogni lirica.
I processi poetici e i particolari metaforici, sui quali è intessuta la lirica della Rodeghiero, oltre ad essere continuamente modellati su costanti cognitive di grande spessore, percepibili ora più, ora meno, quasi declinano il tema del viaggio, il quale, pur costituendo la trama portante, lega in modo quasi impercettibile tutte le liriche. In questo modo, sottile e sfuggente, la poetessa organizza e articola la complessa cognizione dell’uomo, della realtà presente e, in modo molto velato, del futuro, cui l’uomo va immancabilmente incontro. Seguendo la trama della narrazione poetica, i particolari culturali e cultuali, comuni e condivisi, canalizzano l’attenzione e la conducono a organizzare tanto la percezione, quanto il pensiero del lettore verso un orizzonte, che sfuma nel metafisico mondo dell’ens a se, mai nominato, ma presente; assolvendo, in questo modo, alla funzione paideutica, cui la Poesia è vocata sin dalle sue più remote origini.
Annalisa, però, nonostante cerchi in qualche modo di dissimulare, rappresenta la sua esperienza tanto cognitiva, quanto artistica come un viaggio nella vita, come necessaria condizione considerata non solo in sé, ma anche, e soprattutto, in relazione con gli altri individui, che tendono tutti, come lei, verso la medesima meta. Nella silloge, ben strutturata sotto l’aspetto artistico ed estetico, non nomina mai la Morte, che pure traspare da cenni molto colti e raffinati, percepibili solo immergendosi nella stesura metafisica della poesia e nella sua concezione eraclitea dell’esistenza. Non manca qua e là un’impercettibile venatura cristiana.
Gli studi filosofici, soprattutto di ispirazione hegeliana, hanno condotto la poetessa a considerare in maniera molto particolareggiata la fenomenologia dello spirito. Ciò permette di cogliere la conoscenza fisica della realtà nella coscienza del sé, dell’ego cogitans e, di conseguenza, agens, mediante una visione unitaria, che lega indissolubilmente la materia allo spirito, il pensiero all’azione, l’esistenza fisica a quella metafisica, il tempo presente, nel quale è fisicamente immersa, vive e pensa e agisce come ens rationale, alla dimensione metatemporale. L’analisi di questo aspetto è di gran lunga più interessante, per penetrare nei solchi della grande poesia tracciati con mano sicura e grande intelligenza.
La Rodeghiero, però, nonostante sia suggestionata dalla fenomenologia, cioè da ciò che fisicamente appare ai suoi occhi scrutatori, dalle forme apparentemente più semplici di conoscenza si eleva a quelle più generali, per condurre il lettore fino a quelle assolute, che vanno individuate e analizzate con estrema cautela. In questo percorso non trascura la logica di Aristotele, come, ad esempio, il principio di non contraddizione; non estremizza la teoria logica della dialettica hegeliana, che mette in continuo confronto con la logica del carpe diem oraziano e della Morte intesa in senso cristiano.
La poetessa avverte lo scorrere del tempo, la trasformazioni fisiche, che avvengono nel suo essere umano di spirito e materia, la caducità di ciò che la circonda e con meditata consapevolezza scrive:
Provvisori noi, nei sentieri d’oro del mistero
che credevamo eterno – abisso e dimora,
costole allargate al vasto respiro
portavamo ignari, corone di rose.
Niente era certo come il sangue.
Noi eravamo quelli del tempo antecedente l’indugio
Ruggito di natura vergine. Urogalli.
I castelli non avevano torri.
Il lessema provvisorio, posto volutamente come termine incipitario della densa e pregnante lirica, non si presta a molte illazioni, perché la poetessa, volgendo lo sguardo alla brevità della vita, il sentiero d’oro, creduto falsamente eterno, assume il significato di precario, di effimero, di caduco, di temporaneo. L’elenco dei sinonimi non è stato citato per pura erudizione o, peggio, per sfoggio di linguaggio, ma perché il lettore nel leggere la lirica provi il sentimento di incertezza, di instabilità, che rimanda immancabilmente alla poco radicata idea che tutti, una volta iniziato il loro percorso terreno, devono necessariamente giungere alla fine. Questo concetto stride col bisogno prettamente umano di eternità, perché l’uomo, preso dalla materialità, crede che la vita, il sentiero d’oro ammannito dalla Natura, sia eterno. I primi due versi, come ogni lettore avveduto si è accorto, richiamano apertamente Leopardi, il quale, rivolgendosi a Silvia, con amarezza e disperazione dice: «all’apparir del vero / tu misera cadesti». La provvisorietà, però, rimanda anche a Ungaretti, quando nella brevissima poesia, Soldati, si ferma a considerare la fragilità e la provvisorietà dell’esistenza e scrive: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». I significati di revocabile o di temporaneo nella mente della poetessa inducono a riflettere che se l’uomo ha costantemente davanti agli occhi questa realtà può alimentare il sogno di avere sempre la porta aperta per la libertà. Non a caso, infatti, la breve lirica è chiusa da un verso di icastica fermezza e saldezza: «I castelli non avevano torri».
La poetessa oblitera, almeno in apparenza, la lezione evangelica e rievoca in modo appena percettibile, al di là di ciò che i singoli lessemi e la stretta concatenazione dei sintagmi possano significare, la fenomenologia trascendentale di E. Hasserl, il quale accanto a fenomeni realisti pone la svolta trascendentale, abilmente evocata in «noi eravamo quelli del tempo antecedente l’indugio». Il tempo, infatti, è un quid dato all’uomo per viverlo, non per possederlo; è un’opportunità, un grande favore che l’uomo riceve e gli va incontro, senza interruzione: è come le «costole allargate al vasto respiro». Al tempo che scorre con ritmo incessante, il kronos della filosofia greca, la poetessa affianca in modo magistrale il kairos, l’opportunità offerta dalla speculazione di ispirazione mistica. Colta sotto questa dimensione l’esistenza terrena si arricchisce, perché l’uomo ha l’occasione di vivere il proprio ego in modo più concreto e nel respiro universalistico della psiche avverte la presenza del proprio simile accanto a sé, senza obliterare la natura, l’urogallo, della quale avverte le pulsioni e le antinomie.
Nello svolgimento diacronico della silloge, la lirica testé riferita è idealmente e psicologicamente legata con la seguente, di chiara ispirazione ungarettiana, almeno per le movenze esteriori e lessematiche della prima parte:
Persi all’alba polline e veleno
appesi si sta all’impermanenza
alla giusta distanza di salvezza
riparo persino da noi stessi.
Ma nella stanza c’è tutto un vuoto sacro
da incontrare, una rinascenza d’acqua,
lontani dalle brame si prova a separare
ciò che vale da tutto ciò che lacera e scuce.
Svanisce il dominio del domani.
In questa lirica, psicologicamente e filosoficamente legata alla precedente dal filo conduttore del tempo e della sua caducità, la lingua adoperata dalla poetessa non diventa strumento di comunicazione, perché questa presuppone comunanza di intenti con colui col quale si comunica. Come la lingua di Mallarmé, ridotta solo espressione di se stessa, Annalisa invita a cogliere l’essenza del dettato poetico celato sotto la concatenazione logica più che sistematica dei sintagmi. Ma a differenza del poeta francese, il quale parlava e scriveva per non essere compreso, la Nostra disambigua lessemi e sintagmi per un più pragmatico e pregnante messaggio naturistico-filosofico, cui il fruitore può giungere attraverso le vie delle conoscenze apprensibili. Bisogna anche sottolineare che la poetessa evita l’incomprensione e l’incomunicabilità di Mallarmé, ma ammicca con sottaciuta compiacenza a un certo ermetismo ungarettiano, perché preferisce le immagini forti e incisive alle idee, che, racchiuse in stilemi di non immediato impatto, spesso sfuggono e svaniscono, senza lasciar traccia.
Nella lirica precedente al lessema provvisori, collocato nell’incipit, in questa, a conclusione del secondo verso, in posizione chiastica con la prima, pone in modo non casuale impermanenza, che, sebbene di recente conio da parte di Bernardo Bertolucci, risulta molto efficace, per la pregnanza dell’immagine e della realtà evocata e ribadita dai versi successivi.
La suggestione, suscitata dalle liriche di Annalisa, esercita un effetto imperioso sul lettore, perché le garanzie del linguaggio adoperato, grazie alla studiata e stimolante musicalità impressa alle parole, accarezzano e incantano l’udito del lettore. La formazione scientifico-filosofica della Rodeghiero si rivolge a un lettore aperto alla comprensione multipla: eccita, in ultima analisi, il lettore a continuare un atto produttivo non concluso, ma sempre in fieri. In ogni lirica, infatti, la poetessa non si cura di giungere a una conclusione riposante, perché, mediante una propria produttività ulteriore, risveglia nel subconscio del lettore potenzialità, mediante le quali gli trasferisce la misura generante e un’infinità di atti interpretativi.
Il lettore, oltre alla lettura dei singoli lessemi e dei sintagmi, non deve tanto decifrare il complesso mondo del messaggio poetico, quanto entrare egli stesso nell’enigmatico mondo dell’essere, dove intuisce decifrazioni e rifrazioni, ma non le conduce a termine in anticipo, perché Annalisa con uno studiato sintagma recide ogni altro sviluppo, come, ad esempio, «Svanisce il dominio del domani», «e mai si arrende in noi questo volare inquieto», «la verità si rivela nel palmo». Le citazioni potrebbero continuare.
La lettura di questa lirica, alla prima quartina, nella quale all’incertezza e alla precarietà dell’ens cogitans, nella seconda, mediante un brusco passaggio, conduce quello stesso ens a prendere coscienza del proprio sé, a entrare nella stanza segreta del proprio ego ontologico. Questo particolare aspetto metafisico, presente nella produzione lirica della Rodeghiero, costituisce la cifra, lo sfondo vero e proprio della sua maturità lirica, apprezzata da più parti.
Con consumata maestria, mentre medita e riversa all’esterno il proprio sé, incarnandolo in lessemi facilmente logorabili, da lontano e ben nascosta dalla fitta coltre dell’impermeabilità lessematica, guida il lettore a comprendere lo svolgimento della sua poesia, e in modo che il processo innescato diventi inizio ed esecuzione di una conquista a livello ontologico. Questo schema, difficilmente individuabile a una prima lettura, risulta evidente dal fatto che in tutta la silloge ricorrono, a volte in maniera inconscia, gli stessi atti fondamentali, i quali conferiscono ai motivi, alle parole e alle immagini anche più semplici e di impatto immediato una dimensione metafisica difficilmente spiegabile solo sulla base di questi stessi elementi.
Si trascura per il momento l’esame critico di questo schema, perché la sua valutazione non può essere che sintomo di modernità, supportata da continua riflessione filosofica e religiosa, almeno allo stato embrionale. L’assoluta originalità del dettato poetico e del contenuto ontologico-metafisico, come retale e metatemporale consiste nel conferire alle esperienze fondamentali della modernità un’interpretazione universalistica. Anche se mancano nella densa e feconda silloge esperienze del fallimento sperimentato dalla passione per la trascendenza, per le incoerenze e per le immancabili e obiettive fratture, emerge un’incantata visione panica della natura, presente nel paesaggio alpino. Questo dato, che si coglie ora più, ora meno nelle brevi liriche, ravviva l’essenza del lirismo e coinvolge l’anima in esperienze trascendenti.
L’arte della Rodeghiero consiste, principalmente, nel fondere lo schema ontologico e la parola poetica nella sfera del suono ora vibrante, ora volutamente sottomesso, che sfocia non di rado nel fascino del mistero, asse portante e fondante della lirica. È in questo particolare che l’espressione lirica trova il suo terreno fecondo, anche perché sovente la poetessa concretizza l’essenza nella concretezza, come si legge nella lirica XXIV:
Più che la libertà
del volo invidio l’inconsapevolezza
quel gorgheggiarla intera la vita
senza battibecco dentro la selva
– tersi di cielo i nidi – nella verticalità beata.
Ché scavare, zampette isteriche
non appartiene al disegno primigenio.
In questa manciatina di versi, con linguaggio apparentemente ermetico, Annalisa tende verso l’alto, verso il sublime spirituale mediante un innato desiderio di fuggire la trita realtà del quotidiano, presente già nelle teorie di Baudelaire e in gran parte della poesia prodotta da Rimbaud. Ma accanto a motivi storici e in stretta connessione con questi grandi poeti francesi la Nostra aggiunge la crescente presenza, e influenza, della letteratura naturalistica, come si desume dai velati e sentiti cenni all’incomparabile bellezza del variegato paesaggio alpino. Le vaste e incontaminate distese di neve viste da bambina sugli altipiani di Asiago sono vive nei ricordi di Annalisa e le evoca con accenti di accorata malinconia in metafore, che lasciano il segno, come «Cancellarsi come neve, come neve crearsi». In questo verso, collocato come chiusura della brevissima lirica XVI, con lo studiato chiasmo, insieme con l’omoteleuto dei lessemi verbali, conferiscono a tutto il componimento un elemento quasi magico, perché è strettamente legato al verso precedente, nel quale la neve assume un ruolo del tutto particolare: «Imparare dai campi riarsi, il sogno di neve».
Nel pregno stilema, d’ispirazione ungarettiana, i due emistichi giocano con la loro semplicità un ruolo del tutto particolare: all’arida e infeconda arsura del periodo estivo, per il naturale susseguirsi delle stagioni, subentra il periodo della fecondità recato dall’inverno, a torto ritenuto stagione morta. La poetessa, mentre scrive il secondo emistichio, ha di certo presente il sonetto di Pietro Mastri, Sotto la neve pane. Il poeta fiorentino, vissuto tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, era presente in tutti i libri di scuola elementare e media almeno sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Anche se ebbe uno spirito del tutto indipendente in quell’arroventato periodo politico, trasse dal Pascoli non pochi motivi, che rielaborò in modo del tutto personale. Annalisa sembra allacciarsi a questo poeta, che fu un sensibile interprete della natura, ma nella tramatura della lirica rielabora con sensibilità quanto le ha fornito, forse in maniera inconscia, un poeta molto apprezzato prima e dopo il secondo conflitto mondiale.
La poetessa torna alla neve anche nella lirica XVII, dove scrive:
Tu mi porti là, dove le cose vengono
quando devono venire, con levità
come di neve, se la neve torna al seme.
Nel flosculo riportato agli occhi del lettore balza la rima costituita da due trisillabi porti là – levità. Si osservi che l’enclitica là, insieme col verbo porti, cui è strettamente legata, costituisce nella pronuncia un solo lessema: il verbo assume la funzione di proclitica rispetto all’avverbio di luogo.
Nello scorrere la bella silloge si nota che la poetessa tende costantemente al sublime, a ciò che è al limite delle possibili espressioni umane. Il sublime non è una categoria presente solo nel Romanticismo, ma risale all’antichità classica; e Saffo, Alceo, Catullo, Orazio e Lucrezio costituiscono ancora paradigmi insuperabili.
Quando Annalisa scrive questa silloge ha certamente presente nella mente quanto Kant scrive nella Critica del giudizio. Secondo il filosofo tedesco, il sublime apre all’infinito, presente anche un oggetto amorfo. Anche se questa osservazione, giusta nella sua soggettività, si discosta dall’idea del bello, che si riscontra nella finitezza e politezza del prodotto, dà vita al sublime dinamico, presente nell’animo umano, mentre tende ad esprimere nel modo più perfetto possibile quanto concepisce. Annalisa vive e versa tutto questo senza sforzo nei versi, consapevole di avere in sé un infinito in potenza, che diventa atto nel momento della scrittura, concretizzazione e proiezione della dimensione metatemporale e metafisica dello spirito creativo.
Nell’asciutta scrittura di Annalisa si nota un pacato, ma insistente, atteggiamento dialogico ora con se stessa, ora con l’altro, come antagonista di una commedia, che si consuma nello spazio vago e indeterminato dell’anima. È, questo, uno dei tratti principali, che caratterizza la lettura di un testo letterario. Ma, oltre a questo, che potrebbe considerarsi normale per il carattere paideutico della poesia, si possono individuare altri aspetti, ugualmente rilevanti, per un inquadramento più esauriente. Tra questi, trascurando altre proposte teoriche, che attribuiscono un ruolo centrale alla lettura e alla comprensione del testo poetico, particolare interessante, e imprescindibile, assumono i modelli mentali, riferibili al genere e all’elaborazione figurata. Nell’elaborare queste proposte C.F. Feldman ebbe come collaboratori J.S. Bruner e R.W. Gibbs, ingegni di altissima levatura, accumunati dal tentativo di definire non tanto le specificità della lettura letteraria, quanto dimostrare come i modelli mentali di genere o i modi figurati del pensiero siano insiti nelle costanti cognitive.
Nell’elaborazione e nella disposizione delle singole liriche, presenti nella silloge, emergono e trovano pieno riscontro le indagini e le riflessioni dei citati studiosi soprattutto sul costrutto di genere. Queste si innestano sul campo più ampio dell’investigazione, rivolta essenzialmente al pensiero narrativo.
Legata a esigenze definitorie, normative e tassonomiche, ogni singola lirica assume dimensioni quasi oniriche, che permettono di percepire, insieme col fremito della Natura, l’intimo travaglio del dettato poetico, e svelano la ricchezza e la sensibilità interiori della poetessa, mentre scandaglia situazioni e stati d’animo difficilmente definibili.
Quale fosse la meta artistica, cui tende senza indugi o lungaggini logoranti, si coglie dalle molte espressioni programmatiche disseminate tra i sintagmi delle singole liriche.
Nel suo canto perenne alla vita, alla natura, che si rinnova o nelle fitte abetaie o sotto il manto bianco e immacolato della neve, la poetessa inocula nell’animo del lettore quel quid particolare, che sfiora ora solo l’umano, il terreno, il contingente, ora il divino nella sfuggente evanescenza dell’etere.
Alla preesistenza della natura Annalisa aggiunge invenzioni materiali, tangibili, mediante i quali conquista la vera libertà dello spirito, domina gli eventi e li impiega per veicolare l’eterno messaggio, insito nel mistero della mente. La poetessa non nutre, né inocula nel lettore il desiderio di sfuggire dalla realtà, come avviene nella teoria adottata da molti poeti contemporanei, ma si connette a motivi storici e geografici per delineare la nobiltà e la trascendenza dei valori insiti nella mente umana.
Accanto al reale positivo e in piena sintonia con esso, nel tessuto narrativo della lirica si insinua in modo impercettibile la fantasia creativa, che conquide più per le immagini che per le idee, ora sottese, ora presenti in modo massiccio. Nelle liriche il reale e positivo non contrasta con la fantasia creativa, né la condiziona, ma procedono insieme per cogliere l’avvincente varietà del molteplice, celato nell’immenso bacino minerario dell’animo. L’indagine sulla psicologia letteraria della poesia offre uno strumento ottico, che la poetessa offre al lettore per consentirgli di cogliere quel quid essenziale ed esistenziale, del quale, probabilmente, avrebbe ignorato persino l’esistenza.
Orazio Antonio Bologna