Dante maschilista?
di Orazio Antonio Bologna
Dante, come si costumava nel Medioevo, non scelse di persona la donna della sua vita, ma suo padre o, se rimasto orfano in tenera età, chi ebbe cura di lui. Il matrimonio, quindi, fu concordato dai genitori dei futuri posi. Questa costumanza in molte zone d’Italia è rimasta in vigore fino a epoche molto recenti. Allo scrivente è rimasta impressa una scena a dir poco raccapricciante, accaduta intorno agli anni Sessanta del sec. scorso.
Dopo gli accordi verbali intercorsi tra gli interessati, il padre dello sposo, seguito dal figlio, nel giorno stabilito si reca alla casa della futura sposa con due fogli di carta bollata. Il sottoscritto aveva il compito di redigere l’Instrumentum dotis, volgarmente detto Istrumento di dote. Alla fine, quando l’atto burocratico fu portato a termine e debitamente firmato dai genitori di entrambi gli sposi, il padre dello sposo, rivolto al figlio, disse: «Ora puoi dare la mano alla tua fidanzata e sedere accanto a lei». La ragazza scoppia a piangere e dice: «Io quello non lo voglio!». Il padre, imbestialito, afferra la figlia per un braccio, le molla un paio di sonori ceffoni, la sbatte contro il muro e, indicando il fucile appeso alla parete, soggiunge: «O prendi questo giovane come marito o ti sparo!». L’uomo era un noto delinquente, cui non erano ignote le patrie galere. Il matrimonio ci fu, ma finì dopo pochi mesi. Anche i genitori di questi poveri sposi, sebbene a modo loro, avevano di mira il bene e la felicità dei figli.
Nessuno può dire con certezza se il matrimonio di Dante sia stato dettato più dall’amore o più dall’interesse, anche perché la dote pecuniaria della donna, considerate le condizioni della famiglia Donati, dovette e deve considerarsi molto modesta. Trattandosi di un matrimonio preparto dai genitori, non si può dire se Dante, quando condusse a casa Gemma si sia davvero innamorato o, nonostante la figliolanza, la donna gli sia rimasta estranea. Durante la convivenza, come avviene in tutte le famiglie, qualche disappunto, secondo la testimonianza di Boccaccio, dovette certamente essersi verificato. Ma ciò non significa che tra marito e moglie non ci sia stato vero amore. È vero che Dante nelle sue opere non nomina mai né i figli né la moglie, ma tale silenzio non costituisce un argomento valido per desumere che Dante non amasse nessun membro della famiglia e non fosse legato a nessuno di loro, soprattutto alla moglie.
Il matrimonio di Dante con Gemma Donati, per mancanza di documenti dettagliati ed esaustivi, presenta alcuni punti oscuri, altri di difficile soluzione, altri spiegabili con le costumanze dell’epoca, che oggi, a dir poco, appaiono strane e obsolete. Non si dimentichi che quell’epoca era del tutto diversa dall’attuale. Per cui a questo punto bisogna fermarsi un attimo per riflettere sulla figura di Gemma e sulla famiglia di appartenenza.
SAVE THE DATE 10 aprile alle ore 17,00 in diretta on line Assosinderesi per la rubrica "Ti presento una penna" presenterà il Professor Orazio Antonio Bologna che parlerà del Viaggio di Dante e presenterà il suo ultimo libro LA DIVINA COMMEDIA, le 100 terzine più famose.
Di Gemma, figlia di Manetto Donati e morta a Firenze nel 1340, si ignora la data di nascita, che si può, approssimativamente, desumere dal contratto di matrimonio, detto instrumentum dotis stipulato davanti al notaio il 9 febbraio 1276. Secondo lo stile fiorentino la datazione degli atti pubblici parte ab incanatione Domini, che nel calendario liturgico si celebra il 25 marzo, la data cade un anno prima dalla datazione comunemente accettata. Per cui l’atto va riportato al 9 febbraio 1277, quando Dante aveva dodici anni e Gemma almeno uno o due anni meno del promesso sposo. La sua nascita va, quindi, presumibilmente collocata intorno al 1266 o, con maggior probabilità, nell’anno successivo. Al tempo dell’instrumentum dotis entrambi i contraenti erano ancora adolescenti, impuberes, e, secondo le leggi allora in vigore, non ancora idonei a costituire una famiglia. In considerazione di ciò, si deve ritenere che il matrimonio sia stato celebrato in due tempi: alla stipula dell’instrumentum sia seguito un congruo lasso di tempo, per permettere ai contraenti di crescere e acquistare, con la maturità fisica, maggiore responsabilità. La deductio virginis, il momento che la sposa dalla casa paterna passava in quella del marito, si sarà verificata certamente diversi anni più tardi, presumibilmente tra il 1283 e il 1285, quando Dante aveva diciotto o vent’anni, tempo adatto anche per la consumazione del matrimonio. Ma queste date sono tutt’altro che certe, perché i documenti giunti sino a noi sono tutt’altro che chiari, per probabili errori di trascrizione. Gli atti originale, purtroppo, sono andati perduti. Certo è, come riportano alcuni documenti, che la dote data a Gemma dalla famiglia ammontava a 200 fiorini piccoli. Tutto sommato, dato il prestigio della famiglia, non era molto consistente.
Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, Iacopo e Antonia e, probabilmente, un quarto di nome Giovanni. Non c’è documento, con il quale si dimostri che Gemma abbia seguito il marito nella sventura. Ci sono, però, atti che attestano la presenza della donna a Firenze, mentre il marito era in esilio. Seguirono il padre i figli, perché accumunati alla sua condanna del 1302, ma non subito, perché non ritenuti idonei a sopportare le inevitabili difficoltà, che la condanna comportava. Un documento, redatto nell’agosto del 1329, riporta che Gemma a Firenze è annoverata tra le vedove di esuli, che avevano sovvenzioni di denaro o di grano per la sopravvivenza. La donna in seguito recuperò la dote, confiscata con la condanna all’esilio del marito.
Il matrimonio di Gemma con Dante, come di solito si dice, non fu dettato dall’amore, ma solo dall’interesse, e fu stipulato dai genitori davanti al notaio quando i contraenti erano ancora piccoli, non erano, secondo la formulazione giuridica, sui iuris, capaci di intendere e di volere. Era uno dei tanti, perché in quel periodo, come in tempi piuttosto recenti, era normale che i genitori provvedessero alla sistemazione dei figli nel migliore dei modi.
Mentre di Dante, l’italiano più illustre e famoso, si è scritto tanto in tutti i tempi, di Gemma nessuno si è seriamente occupato se non per pure disquisizioni accademiche o, peggio, in questi ultimi tempi, per tacciare di maschilismo Dante e presentare Gemma come vittima, costretta a sopportare i soprusi del marito.
Nella Firenze dell’epoca la famiglia di Gemma aveva un ruolo invidiabile e anche lei non passava inosservata, soprattutto quando Dante si dedicò alla vita politica. Anche quando il marito era in esilio, era trattata con un certo riguardo e per la deferenza verso la famiglia di appartenenza e per la fama, che il marito si era procurata come poeta. Ma la sorte non le ha riservato la stessa fama e celebrità dell’illustre marito.
Secondo alcuni studiosi il suo nome sarebbe stato oscurato dalla presenza ingombrante di Beatrice, identificata con Bice, figlia di Folco Portinari. È vero che Gemma non compare in nessuna opera di Dante, ma potrebbe essere probabile che sotto il nome di Beatrice si celino tutte le attenzioni di Dante verso la moglie. Qualcuno, probabilmente, insistendo in maniera poco opportuna e antistorica sul maschilismo di Dante, ha visto in Gemma una succuba del marito e non ha preso nella dovuta considerazione la complessa allegoria celata sotto il nome di Beatrice. Anche se all’inizio non fu, probabilmente, un matrimonio d’amore, ai più pare che sfugga che Dante era colto, devoto alla Madonna, finissimo teologo, nonché acuto filosofo e, soprattutto, cattolico praticante; e con questo invidiabile corredo culturale non si può immaginare Dante un rozzo maschilista, pronto ad umiliare e offendere in ogni occasione la moglie, verso la quale, se si leggono con attenzione alcuni luoghi della Divina Commedia, ha nutrito sempre un tenero affetto. Chi osa affermare ciò, dovrebbe, come logica conseguenza, negare la rettitudine morale di Dante, sulla quale credo che nessuno nutra dubbio alcuno. C’è da aggiungere che la casa di Alighiero I e quella dei Donati non erano molto distanti tra loro e non è, perciò, improbabile che Dante nella fanciullezza sia stato colpito dai modi di Gemma ancora bambina e da adulto ne abbia cantato la gentilezza e l’amore. I genitori, intuite le inclinazioni dei due ragazzi e prevedendo un futuro felice per entrambi, a tempo debito stipularono i patti per il loro futuro matrimonio. Non si può dire che tutti i matrimoni stipulati in questo modo abbiano avuto tutti esiti infelici.
Gemma, al contrario, dovette essere un’ottima madre di famiglia, una moglie affettuosa e un’oculata amministratrice del patrimonio familiare, se il marito poté dedicarsi senza preoccupazione dapprima agli studi e, successivamente, alla vita politica.
Nella Lettera a Cangande c’è una frase significativa: «Non mi mancherà certo il pane!», che dà adito a molte riflessioni sui suoi beni immobili e sul suo patrimonio, probabilmente confiscato solo in minima parte. Questo, da quanto si apprende dai documenti coevi o di poco posteriori, con la condanna alla confisca, non dovette andare incontro a un danno eccessivo, perché Dante e i fratellastri Francesco, Tana e, forse un’altra sorella, della quale si ignora il nome, alla morte del padre, non si divisero legalmente il patrimonio paterno. Neppure dopo la morte di Dante, il suo patrimonio, come si apprende da documenti d’archivio, non fu legalmente diviso tra i figli. Nel 1321, probabilmente dopo la morte del marito, Gemma richiese, e ottenne, la restituzione della somma dotale, ricevuta dal padre e confluita nel patrimonio di Dante. Che siano stati confiscati alcuni beni intestati a Dante è certo, ma quanti e quali essi fossero, non è certo.
Gemma, presagendo a quanto sarebbe andata incontro in seguito alla partenza del marito per Roma e con Carlo di Valois alle porte di Firenze, pensò bene di nascondere in luogo sicuro i beni confiscabili e le carte scritte da Dante. Il forziere fu portato in un convento, ritenuto nei tempi di rivolte civili un nascondiglio più che sicuro, perché nessuno avrebbe osato mettere piede in un luogo consacrato. Lì il forziere di Gemma rimase per un bel po’ di tempo, perché, quando Dante, ormai in esilio già da qualche anno, le chiese di avere alcune carte, la donna incaricò del recupero un procuratore, accompagnato dal nipote Andrea, che aveva con sé la chiave del forziere. In questa occasione, probabilmente, Gemma inviò a Dante i primi sette canti dell’Inferno, che, secondo il Boccaccio, furono composti prima dell’esilio e gli sarebbero stati recapitati nel 1306, mentre era ospite dei Malaspina, nella Lunigiana. Ma molti studiosi rifiutano questa ipotesi e non entrano nella spinosa questione sul tempo, nel quale fu realmente iniziata la Divina Commedia.
Gemma, secondo le informazioni fornite da Boccaccio, rimase a Firenze, perché Dante non ne sopportava le molestie e le pretese. Questa situazione, in considerazione che il matrimonio non fu dettato dall’amore, si potrebbe anche accettare, ma lo stesso Boccaccio informa che Dante lasciò volutamente Gemma a Firenze e per la piccola età dei figli e perché era certo che l’appartenenza a Corso Donati costituiva per lui una garanzia rassicurante.
Con questa decisione può anche darsi che Dante, oltre a risparmiare disagi e sofferenze a persone innocenti, abbia pensato anche all’amministrazione del cospicuo patrimonio personale e metterne in salvo i proventi, con i quali anche in esilio avrebbe potuto condurre una vita meno disagiata. I figli lo raggiunsero, appena furono in grado di affrontare i disagi legati alla lontananza da Firenze.