Decreto del maestro Graziano-Decretum magistri Gratiani, di Orazio Antonio Bologna
Sul Palatino da tempi molto remoti, agli inizi del II millennio a.C., si era stanziata una tribù come tante altre. Questa parlava la lingua latina, destinata ad essere non solo mezzo di comunicazione tra gli individui di quella sparuta società, ma espressione di una grandissima civiltà, gli influssi della quale si riverberano anche sulla società moderna. I componenti di quella tribù, destinata a grandi imprese, aveva l’innata capacità di assimilare, rielaborare e proporre nuove idee; sviluppava in sé i germi, che, a tempo opportuno, sarebbero maturati e avrebbero gettato le basi per la convivenza civile di nuove comunità. Il destino di Roma e della missione assegnatale dal Fato è delineato nei celebri versi, Aen., VI, 851-53, da Virgilio posti sulla bocca del vecchio Anchise: «Ricordati, Romano, che sei tu a dominare sui popoli col tuo impero; questo è il tuo compito: dettare le condizioni di pace, sfruttare quanti hai sottomesso, mettere i riottosi in condizioni di non poter muovere guerra».
La lingua latina oggi è nota soprattutto per le opere letterarie, che dal loro apparire sono state considerate patrimonio indiscusso dell’umanità e capolavori indiscussi, sui quali si sono formate generazioni studiosi e di poeti. Da questi antichi capolavori hanno tratto e assimilato il messaggio, mediante il quale hanno dato vita a quei movimenti culturali, letterari e artistici, che, in tutta l’Europa, costituiscono il punto di partenza e l’orgoglio delle nascenti letterature nazionali.
Particolare peculiarità della lingua latina è, oltre alla sua duttilità, la chiarezza, la sinteticità, l’efficacia riscontrata nella formulazione giuridica, che, per le sue abilità tecniche, costituisce un unicum nella storia culturale del mondo intero: il suo complesso ordinamento giuridico, infatti, costituisce ancora oggi un importante monumento e un punto di riferimento indispensabile per una sana, equa ed efficace legiferazione.
Il complesso ordinamento giuridico romano si può dividere in due fasi, delle quali la seconda è la naturale prosecuzione e il logico sviluppo della prima. La prima fase abbraccia un lungo arco di tempo, che inizia con la fondazione della città e giunge alla morte di Giustiniano, il quale, al dir di Dante, fu colui, che dalle leggi trasse il troppo e il vano. Da quando, infatti, Roma prese coscienza delle sue potenzialità e si organizzò politicamente come civitas autonoma, con l’ininterrotta compilazione di organiche raccolte di leggi fino alla promulgazione del Digesto, delle Istituzioni e del Codice Giustinianeo erano trascorsi più di mille anni. L’insieme di queste opere, basilari per la conoscenza del diritto romano e della sua evoluzione, prende il nome di Corpus iuris civilis, nel quale sono raccolte le costituzioni emanate dopo il 535, le cosiddette Novelle institutiones. Queste opere costituiscono un complesso articolato di scritti giuridici, l’importanza dei quali è davvero immensa sia per la conoscenza delle leggi e delle istituzioni del basso impero sia per la ricostruzione di testi legislativi dei tempi precedenti. Nell’evoluzione del diritto, infatti, i giuristi romani avvertirono sempre la continuità, per cui in queste opere si riscontra una ricchezza davvero preziosa di riferimenti e di citazioni dai testi antichi soprattutto nel Digesto nelle Istituzioni.
Testi di carattere normativo, però, sono desunti anche da altre fonti. Tra queste vanno annoverate le epigrafi e, in modo particolare, le opere di letterati, di eruditi, di storici e di retori, i quali utilizzano, e tramandano, leges, plebiscita, senatusconsulta, edicta e numerose principum institutiones. Perciò Gaio può, e giustamente, osservare che il diritto romano poggia sulle leggi, sui plebisciti, sui decreti emessi dal senato, sulle costituzioni emanate dagli imperatori, sui loro editti, su coloro che hanno il compito di amministrare la giustizia, sui responsi degli esperti.
La legislazione romana iniziò ufficialmente con l’affissione nel foro delle XII Tavole, che avvenne tra il 451 e il 450 a.C. ad opera di una commissione di Decemviri legibus scribundis, Decemviri delegati a scrivere le leggi. È, questa, la prima, e più antica, raccolta romana di norme giuridiche.
La seconda fase, non meno importante della precedente, giunge fino alla morte di Graziano, avvenuta tra il 1145 e il 1147. Questi, per mettere ordine nella congerie di leggi e di norme che si erano accumulate nella Chiesa dalle origini fino al suo tempo, per tutta la vita si dedicò all’elaborazione del Decretum o Decretum magistri Gratiani, che in italiano significa: Decreto o Decreto del maestro Graziano. La voluminosa raccolta non a caso porta anche il titolo Concordantia discordantium canonum ac primum de iure naturae et constitutionis, che significa Concordanza di canoni discordanti e innanzi tutto il diritto di natura e costituzione. Tanto l’Autore quanto coloro, che, dopo di lui vi hanno posto mano per il necessario aggiornamento e completamento, mostrano una solita conoscenza anche e, in modo particolare, del diritto romano, con la lettura e la conoscenza diretta delle fonti.
In seguito alla diffusione del ponderoso lavoro, distribuito in diversi libri, si apre un altro periodo ancora più intenso e fecondo, perché proprio l’opera del dotto Camaldolese è alla base della legislazione e delle costituzioni, che le nascenti nazioni europee cominciavano a darsi. Ma questo è un altro capitolo. L’attenzione per ora si limita alla lingua giuridica di Roma sia nella sua diacronia che nella sua sincronia, soprattutto quando nella società romana comincia ad affermarsi il Cristianesimo, il quale con i nuovi valori e l’arricchimento linguistico, che porta con sé, opera una vera e autentica rivoluzione non solo in ambito politico, ma anche, e soprattutto, nel vasto e complesso campo giuridico, cui con la sua affermazione imprime una svolta nuova, come si evince dalla lettura di quanto ci ha tramandato Graziano.
Il testo del Decretum, secondo la tradizione giuridica del tempo, è in latino, perché l’insegnamento, i tribunali e le corti adoperavano ancora la lingua di Roma, sentita ancora viva considerata strumento indispensabile per la comunicazione sia orale che scritta.
La storia plurisecolare del diritto romano, anche a un esame frettoloso e superficiale, mostra il passaggio graduale, che prende le prime mosse dalle necessità di una piccola comunità cittadina, la quale, mentre regola i rapporti tra i vari gruppi, originariamente dediti all’agricoltura e alla pastorizia, col passar del tempo diventa un organismo vasto e complesso. Insieme con la continua evoluzione e ampliamento della città segue, si affianca e adegua il diritto, secondo le realtà e le esigenze, che, di volta in volta emergevano. Nella continua evoluzione si fissavano i principi e le norme, destinate ad essere il fondamento e il punto di partenza delle successive elaborazioni giuridiche, delle quali usufruiranno grandissima parte dei popoli europei.
Se si considera la vasta produzione letteraria latina, tanto in prosa quanto in versi, balza subito evidente la profonda incidenza, che il diritto ebbe sulla vita quotidiana dei Romani e, di conseguenza, sulla loro cultura. Le magistrature, infatti, erano strettamente legate all’attività di giudici e il foro, dove i cittadini si raccoglievano e venivano celebrati i processi di pretto sapore tanto politico quanto giuridico, era il punto nevralgico di Roma. Anche la scuola, che preparava i giovani alla vita politica, contribuiva a inoculare nella mente il senso del diritto mediante l’apprendimento delle norme fondamentali. I giovani frequentavano i giuristi più famosi e assistevano ai loro dibattiti. Nel I sec. a.C., secondo la testimonianza del giovane Cicerone, i giovani a scuola imparavano a memoria le leggi delle XII Tavole, recitandole con andamento ritmico, ad alta voce. Il diritto, in questo modo, diveniva patrimonio di tutti.
Rilevanti sono le informazioni, che lo studioso trova nelle opere letterarie, per la conoscenza tanto della lingua giuridica quanto di particolari norme processuali. Si sa, infatti, che la conoscenza approfondita del diritto era appannaggio esclusivo di famiglie nobili e facoltose, in seno alle quali operavano insigni giureconsulti, i quali, non di rado ricoprivano importanti magistrature. In questo modo il diritto acquistava una parte non secondaria anche nella cultura generale. È questo il motivo per cui lo studioso e il lettore di testi letterari latini deve porre sempre molta attenzione e affinare la sensibilità agli aspetti giuridici anche, e in modo particolare, nei confronti di scrittori avvocati e retori, perché allusioni e richiami più o meno aperti al diritto si trovano con sorprendente frequenza. L’uso del linguaggio giuridico in Cicerone, Quintiliano, Plinio il Giovane, Plauto, Terenzio, Catullo, Orazio e Petronio anche in scritti di argomento non inerente al diritto, oltre ad essere sollecitato e determinato da esigenze intrinseche di contenuto, è spesso richiesto e imposto dalla sua efficacia espressiva.
Per quanto concerne l’esemplificazione, davanti all’abbondanza dei casi, c’è solo la difficoltà della scelta; e, dato il carattere e la limitatezza del presente lavoro, si omettono, per necessità, molte citazioni, anche importanti.
Le Epistolae morales, l’immortale capolavoro filosofico e morale di Seneca, inizia con un perentorio invito a Lucilio, il destinatario delle lettere: Ita fac, mi Lucili, vindica te tibi, «Ascoltami, caro Lucilio: diventa padrone di te stesso». Nella stringata e pregnante struttura semantica, con la quale apre la prima lettera e l’opera, il verbo vindicare, proprio del linguaggio giuridico, pone il destinatario davanti a una scelta precisa nella vita: diventare padrone di sé, rivendicare il dominio, che un uomo deve sempre esercitare su se stesso, affermare il suo, e inalienabile, diritto di proprietà; deve energicamente reclamare il proprio diritto di proprietà su un bene illegittimamente posseduto da altri. La vindicatio, in origine, riguardava, in modo particolare, solo res fisiche, tra le quali erano inclusi gli schiavi, a riguardo dei quali Gaio tramanda un episodio molto interessante di vindicatio davanti al giudice proprio per il possesso di uno schiavo. Ma il lessema col tempo, mediante una nuova e più ricca estensione semantica, denota la vindicatio ex servitute in libertatem, uno dei modi della manumissio.
Nella breve e pregnante esortazione a Lucilio, il lessema passa dal significato fisico a quello morale: il filosofo, infatti, espone in forma lapidaria il nuovo programma di vita, che consiste nella liberazione da ogni forma di schiavitù morale.
Non di rado le prescrizioni legali, col tipico tono solenne, sono richieste da ragioni artistiche, nelle quali ironia e comicità giocano un ruolo straordinario. Si riferisce, a riguardo, una nota pericope, tratta dalle Satire di Orazio, nelle quali il celebre giureconsulto Trebazio impartisce efficaci consigli al poeta, che, in preda a dubbi di diversa natura, non riesce a dormire: «Chi ha bisogno di dormire, attraversi a nuoto il Tevere tre volte, dopo esseri unto, e si bagni il corpo di vino».
A titolo di esempio, si riferiscono qui un paio di episodi di azioni o gesti, che in un paesino in prov. di Benevento sono rimasti in vigore fino alla fine degli anni Settanta del Novecento. Ma si conservano ancora presso qualche contadino. Se una persona si scottava, una donna, nota come fattucchiera, una specie di guaritrice, segnava la parte lesa con tre croci e, nel frattempo, recitava sottovoce la formula magica: “Nacque prima il sole e dopo la luna, la carne cotta diventi cruda”. A chi soffriva di ‘inarcatura’, cioè di scoliosi, la fattucchiera prescriveva di percorrere, al tramonto, tre volte, e di corsa, un determinato spazio, il cui punto di partenza e quello di arrivo era segnato, solitamente, da una quercia. Non riferisco la formula magica che seguiva ai tre segni di croce tracciati al momento delle tre partenze, perché nessuna ha voluto mai rivelarla. Ora, con ogni probabilità, è andata perduta, perché nessuno ricorre più a pratiche magiche.
Per quanto riguarda la caratterizzazione della lingua giuridica, che è rimasta pressoché inalterata finché si è scritto latino, bisogna tener presente che i primi, e più antichi, scrittori di Roma furono proprio i giuristi e i legislatori, ad opera dei quali la lingua del diritto si costituì in maniera autonoma, con propri requisiti, tra i quali il ‘tecnicismo’, che crebbe e incise in modo sempre più determinante sul suo sviluppo. Rispetto alle lingue tecniche in linea di massima bisogna tener presente che mentre in queste è soprattutto il lessico, ma non solo, a renderle differenti dalla lingua comune, nella lingua del diritto un ruolo importante è dato anche da fattori stilistici, come l’arcaismo, e in modo accentuato determinate strutture sintattiche, le quali determinarono la compagine del periodo nella sua peculiare caratteristica. Questi segni distintivi nello sviluppo diacronico della lingua giuridica divennero tanto più marcati e duraturi, perché, se si eccettua la lingua sacrale, giocarono un ruolo determinante soprattutto i fattori stilistici. Per cui la lingua giuridica, nel suo complesso, fu protetta e legata da più stretto conservatorismo, perché non offrisse spiragli a equivoci di nessun genere. Il suo stile tecnico, in lena di massima, si basa, nella sua sostanza, sulla linearità delle frasi nonché sull’uso di nessi verbali e sintagmatici, nei quali è insito un preciso significato tecnico, sì che esprimono determinati concetti e non altri. Nell’ambito del latino giuridico è opportuno operare una distinzione tra stile legislativo e stile giurisprudenziale. Di questi il primo ha carattere prettamente precettivo, l’altro, invece, puramente esplicativo, e in chiave ora espositiva ora dialettica. In linea di massima la lingua giuridica riflette i caratteri originari e i metodi più antichi stabiliti dalla procedura, rimasti nella maggioranza dei casi inalterati.