I DINTORNI DELLA VITA VITA. CONVERSAZIONI CON THANATOS
BREVI RIFLESSIONI SU QUALCHE LIRICA TRATTA DA I DINTORNI DELLA VITA VITA. CONVERSAZIONI CON THANATOS
DI NAZARIO PARDINI.
Saggio di Orazio Antonio Bologna
Affrontare la Poesia di un grande Maestro, che nel vasto e complesso panorama della poesia contemporanea gode un posto di assoluto rilievo, provoca non poche perplessità soprattutto in chi non è aduso a trattare e analizzare stilemi, che non si lasciano facilmente imbrigliare in schemi predefiniti e categorie generalizzanti. Per cercar affrontare e di penetrare nel labirintico e pur lineare dettato poetico di Nazario Pardini, occorre, innanzitutto, volgere lo sguardo e fermare l’attenzione sulle due bisettrici fondamentali, che costituiscono i saldi piloni della sua solida e complessa poetica. Se da una parte emerge in tutta la sua granitica potenza la formazione classica, dall’altra non si può tacere la presenza della Religione, intesa unicamente nel suo aspetto spirituale e trascendente, come meta, cui l’uomo, finito il percorso terreno, irresistibilmente tende. Considerare come questi due cardini con tutta la loro complessità interagiscano nell’animo del Poeta e sollecitino l’uomo a una profonda analisi del suo essere può spianare la strada a una lettura più proficua e a una meditazione più ampia su quanto costituisce il tema fondamentale della dotta e raffinata espressione poetica.
Con una tanto ridotta quanto meditata trilogia, costituita da I sintorni della solitudine, da I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita. Conversazioni con Thanatos, Nazario presenta al lettore contemporaneo riflessioni, che prendono l’abbrivio da temi e suggestioni lontani nel tempo e nello spazio. Se non mancano allusioni o richiami espliciti ad autori contemporanei, presente e fecondo è il dettato degli autori classici nei temi, nei ritmi, nella scansione del verso, nella scelta di pregnanti lessemi e di ben torniti sintagmi, che hanno di volta in volta richiesto un intenso e faticoso labor limae. Questo impegno pone, e giustamente, Pardini al fianco dei più grandi poeti latini dell’epoca augustea e lo collega alla dotta ed esemplare poesia alessandrina. Ogni lirica, al contrario di quanto anche un incallito e attento lettore possa immaginare, rivela un ricco e fecondo retroterra culturale e lunghi momenti di riflessione spirituale, che difficilmente traspaiono dalla semplice, e pur profonda, linearità del dettato poetico.
In questa breve riflessione non prendo in considerazione tutta la trilogia, che richiama alla mente la produzione tragica greca, ma solo l’ultimo volume,dal titolo I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos. Non a caso ho, per inciso, richiamato alla mente la struttura degli agoni tragici, che hanno caratterizzato la stagione letterariamente più bella e feconda della Grecia antica. Nella trilogia, anche se ogni tragedia può essere considerata opera a sé stante, piena luce e grandezza d’ispirazione e di concezione sono date dall’insieme delle tre tragedie. Devo con rammarico dire che le antiche trilogie sono andate tutte perdute al di fuori dell’Orestea di Eschilo, costituita dall’Agamennone, dalle Coefore e dalle Eumenidi. L’Orestea è, oggi, di particolare importanza, perché consente al lettore moderno di avere piena conoscenza di questa istituzione, che fu la forma normale, e originaria, della drammaturgia eschilea e dei suoi grandi contemporanei. L’Orestea per la grandiosità della concezione, per la potenza drammaturgica, per lo splendore della poesia, costituisce una creazione di assoluta originalità e grandezza, che sfuggono a qualsiasi schema.
Anche l’opera di Pardini va letta per intero, nel suo lungo e complesso svolgimento poetico, per poter penetrare nelle più riposte pieghe di una psiche ricca e complessa, semplice e meditabonda, classica e moderna a un tempo. Essa, almeno per la produzione letteraria odierna, costituisce un unicum di estremo interesse per la bellezza e la profondità della poesia, per la semplicità e la compostezza della concezione, per la potenza e la linearità dell’espressione lirica.
Prima di addentrarmi nella lettura dell’opera e considerare le liriche sia nella loro singolarità che nel loro insieme, sarebbe opportuno che il lettore fermasse per un istante l’attenzione sulla seconda parte del titolo: Conversazione con Thanatos.
Thanatos, divinità della mitologia greca, è figlio della Notte per partenogenesi e fratello del sonno; amante del sangue, ha carattere arrogante, violento, impulsivo; inflessibile e inevitabile; si rivela nemico implacabile del genere umano, perché impietoso e dotato di un cuore di ferro, e nulla sfugge al suo vigile controllo.
In questa parte della trilogia frequente è il richiamo a Thanatos, diverse le conversazioni con Thanatos, che sempre, e comunque, è in contrapposizione con Bios, la vita. Ogni giorno morte e vita si affrontano e si sfidano. Nella lunga e assidua riflessione su questa lotta perenne, lunga, senza esclusione di colpi, il poeta ha certamente presente il canto, che la Chiesa, a conforto dei fedeli alle prese con le contingenze della vita, innalza il giorno della Resurrezione: mors et uita duello conflixere mirando. Dux uitae, mortuus, regnat uiuus, la vita e la morte si affrontarono in un duello mirabile. Il duce della vita, che pur era morto, ora regna, perché vivo.
Nell’intessere volume della trilogia si avverte l’afflato mistico di questo canto di vittoria, che bios athanatos, insito nell’uomo, innalza nei confronti di Thanatos, il dio del passaggio, della fine. Anche se il poeta insiste molto, e giustamente, sull’incombente presenza di Thanatos, che con la sua potenza travolge tutto, sottende abilmente ciò che si cela sotto bios, e che costituisce il motore del mondo poetico con tutta la sua varietà di toni e di temi: eros. Nella poesia di Pardini non esiste, non si può concepire bios senza eros, come non si può immaginare eros con tutta la sua potenza creatrice senza bios. Il fermento creativo nell’anima del poeta è dato alimentato confortato dall’assidua presenza di eros, che, in questo caso particolare, perde la materialità, insita e intesa nel senso dell’appagamento fisico e materiale dell’atto generativo, innato nella natura di tutti gli esseri viventi. Eros intride nel profondo, a livello inconscio, il bios del poeta e genera, mediante un impercettibile movimento dei sensi, un’idea spirituale, successivamente, con la stesura su foglio diventa poesia, creatura viva, palpitante di vita autonoma. Alla fine di questo processo all’eros, motore impercettibile della creazione, subentra thanatos, perché, con la sua fissità, possa permettere al fruitore esterno di captare i segreti moti d’un animo aperto e proiettato verso l’infinto.
Spinto da un’inimmaginabile uis interiore, mossa e continuamente alimentata da eros, il poeta è spinto a fissare sulla carta quanto questi suggerisce, propone, impone, perché nell’aspetto di thanatos possa giungere là, dove conduce e trova essenza e appagamento l’atto erotico della poiesis. E tutto ciò è estrinseco a un atto essenzialmente carnale, insito non nella materialità ma nella immaterialità dell’ens cogitans, nella persona del poietes. E solo in questo caso si assiste al miracolo, al mirandum duellum tra bios-eros da una parta e thanatos-poiesis dall’altra.
Nessun poeta, almeno fino ad ora, aveva considerato, e proposto, in questo modo le due realtà insite nell’animo dell’uomo. Si potrebbe chiamare in causa Euripide, che con l’Alcesti, tra l’altro un dramma satiresco, ha posto a confronto l’eros di Admeto con l’ineluttabilità della morte, di Thanatos, che viene sconfitto con l’aiuto di Eracle. In questo caso non si tratta di un processo creativo, ma della lotta continua tra il bios e Thanatos, in continua costante tensione nella loro fisicità.
A questa riflessione in Pardini classicista e cultore dell’antica sophia non manca la presenza di Lucio Anneo Seneca, il quale ammonisce di aver sempre presente la mors: l’uomo saggio, infatti, è consapevole che muore giorno dopo giorno. Seneca, però, indurrebbe a parlare del tempo, che nella produzione lirica di Pardini diviene una componente imprescindibile, soprattutto se si considera la poesia un’accurata e puntuale effemeride spirituale. Il poeta siede sul faldistorio e, mentre attinge alle esperienze del passato, con la riflessione sul presente si proietta nel futuro. Il tempo, con la fecondità dell’humus, che l’alimenta, nella lirica del Nostro non ispira pessimismo, ma solo una cosciente e sensibile riflessione sullo scorrere della vita, che porta con sé, immancabilmente, gioie e dolori.
Pardini non considera la vita nel suo tragico svolgimento, in attesa della catarsi, ma nella lirica contemplazione di quanto, giorno dopo giorno, presenta nel suo continuo scorrere. Il momento più amaro è costituito dall’allontanamento delle persone care, che, finito il ciclo temporale, transitano in un’altra dimensione, consapevoli che uita mutatur, non tollitur: la vita non viene tolta, ma cambia il suo stato, che da sensibile diventa metasensibile, non più percettibile dai sensi. Questa nuova dimensione, a una lettura frettolosa, sembra che spaventi il poeta. Dietro le normali paure, insieme con i naturali timori del trapasso, si avverte l’animo dell’uomo, che con la sua presenza cosciente e, in modo particolare, con la sua opera sfida il tempo e permette di intuire l’oraziano, Car, III, 30, 1: exegi munumentum aere perennius, ho eretto un monumento ben più duraturo del bronzo. Di Nazario, che dialoga con Thanatos, il quale, come dice Lucrezio, I, 65-57:
horribili super aspectu mortlibus instans,
primum Graius homo moralis tollere contra
est oculos ausus, primusque obsistere contra.
«(Thanatos) incombeva dall’alto sugli uomini con aspetto minaccioso, e la prima volta un uomo greco osò levare contro di lui gli occhi mortali e per primo resistergli contro».
Al greco Epicuro Pardini sostituisce timidamente se stesso; e, accompagnato dal magistero senecano, può con serenità dialogare con la Morte, della quale riconosce il potere, e consapevole lascia intravedere la presenza di Ep., I, 1, 2:
In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeteriit; quidquid aetatis retro est mors tenet.
«in questo ci inganniamo, perché vediamo la morte davanti a noi, come un avvenimento futuro, quando gran parte di essa è già passata. Tutto il nostro passato è ormai sotto il dominio della morte».
Ma è proprio Thanatos, il quale, come opposizione e negazione estreme di eros-bios, permette al poeta di innalzarsi alto ed esplorare, non senza mestizia, dall’interno, l’accidentato percorso dell’uomo, vivente in perenne ricerca di felicità e di serenità.
A differenza di Eracle, che si batte con Thanatos, lo vince e gli strappa Alcesti; in modo del tutto diverso da Orfeo, che scende nell’Ade, commuove con la pietà del suo canto la regina degli inferi e porta con sé sulla terra Euridice, Nazario dialoga con l’avversario, cerca di dilazionarne gli effetti laceranti con pacatezza, nonostante sia cosciente della sua sconfitta. Dalla perdita degli aequales prova dispiacere, non abbattimento; amarezza, non disperazione; trepidazione non timore, perché sulle tracce dell’insegnamento cattolico una voce amica gli susurra: hodie mecum eris in paradiso, oggi sarai con me in paradiso. E Nazario è pienamente convinto di questa verità, attinta dal battesimo, quando, in seguito all’immersione nell’acqua purificatrice, è morto a questo mondo e risuscitato in quello eterno della luce. Nonostante ciò, perdura nella carne l’inconscio timore del trapasso e manifesta tutta la sua umanità sofferente, angosciata, abbattuta dall’incertezza d’un viaggio, al quale nessuno è preparato. Perciò da uomo sereno e cosciente, in un dialogo umanamente sereno può dire:
-Per dir la verità mi fai paura,
così macilenta, scheletrita,
coi denti radi in fuori, e le pupille
che come palloncini si dilatano
oltre il tuo viso scarno e sfigurato.
Ma cosa vuoi da me, non ti aspettavo,
nemica dei miei sogni, infido scheletro
che urbi e mie notti. Cosa vuoi-
In questa strofa, nella quale la Morte è rappresentata, secondo l’iconografia comune dei secoli di maggior fervore religioso, come una donna coperta con un lenzuolo bianco, macilenta, con gli occhi incavati e i denti di fuori, pronta a portar via il prescelto. Alle masse poco acculturate e incapaci di sottili ragionamenti filosofici e teologici la Morte doveva apparire bieca, minacciosa, pronta a portar via, prima o poi, tutti. Con questo atteggiamento lugubre doveva incutere timore soprattutto nei gaudenti, in quei cristiani, che si abbandonavano ai piaceri, soprattutto della carne.
Nella presentazione di Pardini, però, manca l’elemento caratterizzante, perennemente presente nell’iconografia ufficiale: la falce fienaia, comunemente detta falcione, che, simbolo di giustizia e di eguaglianza, richiama alla mente la caducità della vita terrena. All’attento lettore, che forse ignora costumanze di vita agricola, mi permetto di osservare che la morte è rappresentata sempre armata non di falce adoperata per mietere il grano, ma di fienaia, più impressionante. Questa non pochi esperti d’arte, incorrendo in un errore piuttosto grossolano, chiamano impropriamente falce. Tra i due strumenti agricoli corre una notevole differenza, che balza agli occhi se si considera la differente struttura: la falce, di ferro e a forma di mezza luna con impugnatura di legno, si adopera solo per mietere il grano; la falce fienaio, o falcione, fissato all’estremità di un lungo manico, è costituito da una lama lunga circa un metro, spessa, ricurva. Là dove è fissata al manico la lama è larga una quindicina di centimetri e termina a punta. Con questo attrezzo i contadini tagliano il foraggio per gli animali con tutto quello che vi cresce, indistintamente.
Anche Pardini, ma solo per motivi di metrica e di ritmo, mette in bocca alla Morte, a pag. 33 chi volle la mia falce è la Natura. In questo endecasillabo, come ho appena osservato, il poeta avrebbe dovuto usare falcione, che, ovviamente, avrebbe snaturato, irrimediabilmente deturpato il verso.
All’apparire della morte il poeta per nulla sbigottito, psicologicamente sereno, ha paura solo della sua presenza: è brutta d’aspetto, ripugnante, scheletrica. Nella breve, intensa, pregnante prosopografia Pardini riporta il minimo indispensabile, il necessario, quanto appare all’occhio sorpreso, colto all’improvviso. Il tutto distribuito in otto versi congegnati con estrema maestria. Allevato nel culto della misura classica, Pardine apre con un endecasillabo, cui fa seguire un decasillabo, per poi continuare con l’endecasillabo nella maggior parte dei versi piano. L’endecasillabo sdrucciolo, invece, è non a caso adoperato solo due volte là dove il verso, mediante l’enjambenent, si estende, si prolunga nel successivo, sciogliendosi in una sequenza fonica e immaginifica di rara potenza.
Il poeta affronta la presenza della Morte da sapiens, conscio della sua venuta, anche se colto quasi alla provvista le dice: non ti aspettavo, per concludere, senza interrogazione con cosa vuoi.
La Morte col suo arrivo pone fine ai sogni dell’uomo e al tempo della sua permanenza sulla terra. Alle scaturigini della poetica pardiniana va necessariamente posto, e considerato in tutta la sua portata, il concetto di tempo, in stretto legame con quello agostiniano, che, mediante la tradizione scolastica, è giunto fino a noi. In questa categoria, puramente umana, all’uomo, tra il suo inizio e la fine, è dato di realizzare il suo bios-eros, secondo il pregnante monito dell’Ulisse dantesco, Inf., XXVI, 118-120:
considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
La Morte, Thanatos, col suo arrivo improvviso, inatteso, interrompe in modo inesorabile il seppur limitato continuum, necessario per portare a compimento quanto l’uomo, ignaro del futuro, progetta. Nell’accorato sintagma: non t’aspettavo, / nemica dei miei sogni, il poeta, pur cosciente del memento mori, impresso nella natura umana al momento della nascita, evoca una bella e attuale osservazione di Seneca, Bev., I,1:
Maior pars mortalium … de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrunt, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat.
«La maggior parte degli uomini … si lamenta per la scarsa generosità della natura, nasciamo destinati a vivere un periodo troppo breve di tempo, e questi pochi intervalli di tempo a noi concessi scorrono così veloci, così rapidi, che, se si fa eccezione per pochissimi, la vita abbandona gli altri proprio al momento, nel quale si preparano a vivere».
Nonostante Pardini tenga bene a mente che uita breuis et ars longa, non esita a ribadire che la Morte tronca i sogni, per la realizzazione dei quali l’uomo giorno dopo giorno lotta spera soccombe. Ma la morte, con la sua incombente e ingombrante presenza, gli ricorda che non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus: non è poco il tempo concessoci, ma ne sciupiamo molto.
In questo dissennato sciupio, Pardini con velate allusioni richiama alla mente la considerazione, che si legge in eccl., 1,2 uanitas uanitatum, omnia uanita, vanità delle vanità, tutto è vanità. Consapevole che tutto quanto è intorno all’uomo è terreno, contingente, destinato immancabilmente a perire. Perciò, e non a caso, mette in bocca alla Morte l’agghiacciante verità, che lascia sconvolto anche il più scettico:
Verrò da te, da anima negletta,
ti toglierò gli affetti, le memorie,
ti toglierò la vista, e quel che è peggio
ti toglierò il pensiero.
Alla uanitas, cui appartiene anche il pensiero, che caratterizza l’Uomo in quanto ens rationale, Pardini è intimamente consapevole che, come Orazio del citato carme, ai vv. 6-7, può dire: non omnis moriar multaque pars mei / uitabit Libitinam, non morirò del tutto, perché di me alla morte sfuggirà la gran parte e, oserei aggiungere, la migliore. Ciò avviene, perché Pardini con la sua intensa e magistrale produzione poetica ha eretto un monumentum aere perennius / regalique situ pyramidum altius, monumento ben più duraturo del bronzo, ben più famoso dello squallore regale, che ammanta e annienta le piramidi.
Le parole della Morte sono nude, scarne, essenziali, ritmate, scandite senza tentennamenti, senza i lenocini della retorica. Dal tessuto narrativo della breve pericope si evince la scaltrita tecnica della versificazione mediante una sapiente alternanza di versi di varia estensione metrica. Al decasillabo seguono due endecasillabi sdruccioli, chiusi dal settenario.
La Morte, secca nella sua immobile fissità, dice: verrò da te, da anima negletta, per proseguire con il poliptoto del pronome, posto all’inizio dei tre versi successivi e seguito dalla ritmata anafora dello stesso, seguito dal medesimo verbo, al futuro: ti toglierò. Con questa anafora martellante, e vera, studiata e, per efficacia, non dissimile da Inf., II, 1-3, ricorda al poeta in particolare, e all’Uomo in generale, il terrificante potere di Thanatos, che lo sottrae agli affetti, al ricordo e alla vista dei cari. Ma ciò che spaventa di più è la perdita del pensiero e, con questo, il senso della propria identità ontologica: con la morte, infatti, l’uomo, privo della facoltà raziocinante, cessa di essere ens rationale, ens cogitans e l’uomo, sinolo di anima e corpo, privo di bios viene ridotto alla stregua di qualsiasi altro animale: e non è più nessuno, non è più nulla.
Questi versi, però, pur considerati nella loro crudezza, ricalcano molto da vicino il testamento spirituale di Seneca e quello, ancor più pregnante della mistica francescana: vive moriturus, perché, come già detto e Pardini ribadisce, a pag. 27, tutta la vita ti ho tenuta dentro, l’uomo muore non giorno dopo giorno, ma ora dopo ora. Essi conducono il lettore ad affrontare con coraggio l’incontro con sora nostra morte corporale, come il Poverello d’Assisi chiamò quel mostro, che col suo strumento di morte spaventa non pochi, anche saggi. In questi versi non c’è il trionfo del laicismo, né una becera rappresentazione del destino riservato agli uomini, ma la presa di coscienza e la piena consapevolezza di ens cogitans, pronto ad affrontare anche l’ultimo viaggio e a ciò, cui ineluttabilmente va incontro. E proprio in questa presa di coscienza, la riflessione su questa nuova e, per molti aspetti, disarmante realtà, sulla scia di Pascal, l’Uomo può innalzare il trofeo della sua vittoria.
L’Uomo, come ripetutamente accennato, contrappone a Thanatos soprattutto il suo bios, il suo profondo sentire, l’eros, che lo immette all’interno della comunità come ens cogitans e creans. Prendendo le mosse da questa convinzione, per cantare l’altro aspetto, quello decisamente più bello se colto nella sua essenzialità e nella sua portata universale, Pardini classicista si allaccia a Tibullo, gli sottrae Delia e immagina, con le pregnanti suggestioni catulliane, una lunga e bella stagione d’amore. All’accorto lettore non sfugge, a pag. 31, la breve e intensa lirica Andiamo insieme, Delia:
Andiamo insieme, Delia, corriamo a perdifiato,
fino alla fine!
Prendiamo dalla luce solo il sole,
lasciamo l’ombra ai gorghi della notte.
Guarda, laggiù in disparte
C’è la falce
Che aspetta di recidere
i raggi dell’amore.
Su questi versi è bene soffermare l’attenzione per una breve pausa la riflessione. In questi scorre lento, cadenzato, meditabondo nella ben calcolata alternanza di vari metri, ciò che Tibullo, I, 3, 49-54, lontano dalla sua Delia e preso dall’angosciosa febbre dell’amore, scrive:
tunc ueniam subito, nec quisquam nuntiet ante,
sed uidear caelo missus adesse tibi.
Tunc mihi qualis eras longos turbata capillos,
obuia nudato, Delia, curre, pede.
Hoc precor, hunc illum nobis Aurora nitentem
Luciferum roseis candida poret equis.
«In quel mentre, all’improvviso, senza che nessuno prima mi annunzi, vorrei ritornare da te e comparirti davanti come un messo venuto da cielo. Allora tu vienimi incontro, Delia, a piedi nudi, con i lunghi capelli scomposti. E questo io chiedo: un giorno così radioso a noi l’Aurora porti con i suoi cavalli».
Delia nella poesia elegiaca è simbolo dell’amore carnale, di Eros, il dio dell’Amore sensualmente inteso, in tutte le sue sfumature semantiche, e della bellezza. All’idilliaca dolcezza di Tibullo, che invita Delia a corrergli incontro, all’improvviso, insperato e inaspettato ritorno, Pardini invita la sua donna a respirare a pieni polmoni il fremito della natura, che li circonda, dopo una lunga corsa verso i boschi, lungo i ruscelli, all’ombra delle querce. Il dettato classico si inserisce nella malinconica distesa del paesaggio toscano, vi rivive in tutti i suoi aspetti più teneri e lievi e inonda intride vivifica la lirica di un sottile, appena percettibile erotismo. Se l’evocazione di Delia riporta necessariamente a Tibullo, Nazario, con un’abile trasposizione attribuisce alla donna del suo bios fisico quanto appartiene al sommo lirico dell’età repubblicana romana, Catullo, che ha profondamente segnato l’afflato e il dettato poetico del carme.
La breve e densa pericope del Pardini, però, non riesce a fuorviare il lettore più accorto, il quale nei compassati versi del poeta toscano rintraccia il più bello e immediato Catullo, il giovane innamorato mantovano. Il quale si rivolge alla sua donna e, senza rossore, la invita a godere le gioie dell’amore più tenero e travolgente con parole di fuoco:
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
«In questa vita, Lesbia, godiamoci l’amore, senza curarci dei biasimi di questi vecchi barbogi! I giorni tramontano e spuntano, ma noi, una volta finita questa breve vita, siamo costretti a dormire immobili una notte senza fine».
Catullo invita la sua Lesbia a unire alla gioia spensierata della vita e l’ebbrezza spensierata dell’amore, a non tener conto dei biasimi provenienti dal brontolio di vecchi e arcigni moralisti: breve è il giorno dell’esistenza sulla terra e, una volta giunti al tramonto, cadrà su ciascuno di noi il sonno eterno della morte.
All’esuberante slancio sentimentale dei versi catulliani, che animano il breve componimento, all’irruenza del ritmo, in Pardini subentra un contenuto, ma altrettanto vigoroso slancio lirico, col quale incita la sua Delia a mietere le gioie più belle che Eros, con la sua bellezza perenne, somministra nel tenero abbraccio d’una natura incontaminata. L’appena percettibile ardenza passionale si traduce in un ponderato slancio di intima ebbrezza. Pardini, a differenza di Catullo, sottende allude sfuma in modo mirabile l’irruente gioia dei sensi, che avverte e comunica con un linguaggio criptico, finemente allusivo. Manca in Pardini, almeno in apparenza, l’esplosivo e travolgente sentimento, che Eros infonde nell’anima e anima la poesia del Veronese. Anche se smorza la veemenza del primo impatto erotico, evidente, invece, il richiamo alla gioia esistenziale finché la falce, come dirà un po’ più avanti, non scenderà a recidere/ i raggi dell’amore.
La metafora pardiniana si contrappone all’iperbole catulliana e dell’amore e dell’infinita moltitudine di baci, che infiammano il sublime atto della donazione. Al ritmo vertiginoso e travolgente del giovane autore latino in Pardini subentra la matura e amara riflessione della fine troppo vicina, che non permette di assaporare fino in fondo e in maniera duratura quanto Eros, la misteriosa divinità dell’intramontabile bellezza, immette, e in maniera prepotente, nel bios di ogni uomo. La fusione psico-fisica assoggetta Eros alla percezione dei sensi e innalza il bios al di sopra dei limiti imposti dalle contingenze terrene, sensuali, sensoriali.
Al lieve e spensierato tema dello scherzo, tipico della poesia neoterica, che non dissolve la sincerità della gioia, l’impeto dell’immediatezza, l’irruenza sfrenata di cogliere quanto la physis suscita in quei momenti di incanto sublime, in Pardini si stempera, almeno nell’apparenza, in un invito quasi anodino a catturare quanto di più bello possa offrire la luce del sole, la vita, bios, in tutta la sua poliedrica dimensione.
In questa densa lirica Pardini eleva alla sincerità della gioia un canto denso di reminiscenze, pregno di speranze, soffuso d’una serenità panica, che invita a guardare verso il sole, per coglierne il calore, la luce, la luminosità. Con questa lirica il poeta avvolge il lettore con un’atmosfera di incanto spirituale, che parte di sensi per trascenderli col dominio del più bello e più tenero di Eros. La consapevolezza di questo impercettibile e graduale trapasso permette al poeta, al di là di ogni contrasto, di stemperare il canto in un dolce ed elegiaco rimpianto della brevità e della caducità della vita:
saremo nell’oblio della passione
nella latebra dei nostri incantamenti
quando verrà lo scheletro
a coprire di nebbia il breve viaggio.
Orazio Antonio Bologna