Le recensioni di Orazio Antonio Bologna
BOATI DAL PROFONDO di PASQUALINO CINNIRELLA
Anche se la poesia, oggi, incontra poco favore di pubblico, è tuttavia necessario, nonché doveroso fermare per un attimo l’attenzione sulla produzione lirica di Pasqualino Cinnirella, il quale, pur nella riservatezza del suo intimo e a contatto con una terra feconda di umanità e ricca di cultura da tempi molto remoti, coltiva, secondo la felice e intramontabile espressione di Archiloco, l’amabile dono delle Muse. Nel variegato e dissonante orizzonte della poesia italiana con dolore si osserva da una parte uno scadimento sotto tutti gli aspetti, dall’altra la presenza di voci, che cercano in tutti i modi di uscire dalla morta gora di una poetica asfittica, ripetitiva e, oserei dire, della peggiore fattura formale stilistica semiologica. La poesia, come si sa, riflette l’uomo e la società, nella quale questi vive e opera.
Quando, e ciò succede molto di rado, si incontrano libri, nei quali le liriche, pur senza una metrica definita o che possa dirsi tale, sgorgano dal cuore e trasmettono il travaglio interiore e la immarcescibile ricchezza interiore dell’Uomo, l’attenzione cade necessariamente su quei frammenti di vita evocati in modo or più ora meno lirico. In questo caso la dimensione metrica passa in secondo piano e la dimensione lirica acquista nella sticometria arieggiante e irregolare una dimensione più vicina e consona all’animo del fruitore.
In liriche così costituite Pasqualino Cinnirella versa la velata malinconia del suo animo mite e riflessivo, il segreto di una vita altrimenti sconosciuto, i fremiti e i sussulti di un uomo riservato e incline alla meditazione sulla fragilità della natura umana e sui numerosi e frastagliati problemi, che rendono difficile la vita nel suo lento e inesorabile svolgimento.
La scrittura poetica di Pasqualino Cinnirella si dissolve in un malinconico lirismo, che spazia nelle assolate pianure dove ferve il lavoro e, lontano, sulla distesa del mare, che i pescatori solcano in cerca del necessario sostentamento. In queste spensierate e, a volte, dolorose riflessioni va colto il segreto impulso alla meditazione, alla ricerca di sé, alla poesia, che nel volumetto assume quasi l’aspetto di un diario intimo, destinato solo a chi è stato in diretto contatto con il mondo vicino all’autore e alla sua terra.
Vorrei, per un istante, soffermarmi sulla breve, ma densa lirica, che apre il volume e costituisce, per così dire l’incipit dell’intera raccolta:
Nel lungo gioco della vita
siamo come pietre spinte dalla china.
Il male c’incanala tra due sponde
e la voga affoga ogni singolo risveglio.
Ma il bene è con noi
In quel mare di fango che ci annega
-basta tenerci per mano-.
La semplicità del dettato poetico e l’ordinata disposizione dei lessemi nei diversi sintagmi, che costituiscono la lirica quasi sul modello pascoliano delle Myricae, Pasqualino porta, all’improvviso, alla ribalta e alla riflessione del lettore la bella metafora della vita, molto comune tra la popolazione della Sicilia. Anche per Cinnirella, nonostante lo taccia, c’è l’assillante e tormentosa presenza della morte: nell’incessante rotolio verso la valle, infatti, come pietre spinte dalla forza d’inerzia cela il continuo e incessante avvicinamento alla fine della vita e all’incontro con la Morte. Nella bella metafora il poeta cela il senecano cotidie morimur, moriamo giorno dopo giorno.
Nei versi successivi sembra che l’autore richiami alla mente il salmo, nel quale l’antico saggio, piegandosi a esaminare la vita dell’uomo, amareggiato costata che gran parte della vita è labor et vanitas, inseguimento affannoso di beni vani. Ma subito si consola, perché l’uomo, sebbene sia un mare di fango, ha in sé il bene, che può partecipare ai propri simili.
Nella breve riflessione il verso non è costituito dalle misure stabilite dalla metrica canonicamente intesa, ma dal pensiero ritmato da accenti interrotti al momento giusto.
Penso che l’espressione poetica del florilegio sia più pedagogica che momento creativo dello spirito, che cerca di elevare il lettore verso le sublimi vette della speculazione morale e filosofica. Ai grandi temi e problemi sull’esistenza ogni lirica traccia esamina presenta un segmento della vita, vissuto e sperimentato nella sua reale esistenza, e lo propone come paradigma esemplare durante l’incessante rotolio dell’essere pensante verso la valle, che gli offrirà, alla fine, la desiderata quiete.
Alla spietata durezza della vita contadina porta la sentita lirica, che per titolo ha Ma più non canta il cuore. Il poeta, come lo scrivente, ha potuto respirare a pieni polmoni i campi biondeggianti di spighe, mentre al soffiar del vento turgide del prezioso dono piegavano le cime verso terra. Le reste si piegavano morbide e un indescrivibile e indefinibile profumo sollecitava i sensi e incuteva uno strano ardore nel petto ansante durante e dopo la corsa ai limiti del campo. Non era permesso gettarsi tra le spighe e respirare il rigoglio della natura, cogliere il fremito di quel dono in attesa d’essere raccolto, per divenire cibo e nutrimento dopo il duro lavoro della mietitura e della trebbiatura. Con una lieve e semplice descrizione Pasqualino così pone sotto gli occhi del lettore la biondeggiante distesa di grano:
Le spighe han ciuffi neri nella piana
e ondeggiano lente verso il fiume
per il tiepido vento che gli soffia tra gli steli.
È, questa, un’immagine suggestiva, usuale per chi vive nei campi, ma desueta e strana per quanti non conoscono il contatto diretto con la terra, la quale insieme con le gioie del raccolto offre, e spesso in abbondanza, i triboli della scarsità e degli imprevisti.
In questa pericope si avvertono, anche se a distanza, echi di impronta pascoliana, tratti dalla Sera di Barga oppure dalla più nota E Gesù andava oltre il Giordano. In questa lirica, nella stesura della quale l’autore non segue uno schema metrico definito, predomina l’assolata campagna siciliana col suo cielo terso e col sole, che rende più dura la fatica dei contadini e, come scrive Pasqualino, del massaro, il quale maestro nel suo fare tutto dava alla terra, per ricevere dalla terra il necessario per il sostentamento della famiglia.
In questa lirica pregna di ricordi personali l’autore ripercorre gli anni della sua adolescenza, quando spensierato si abbandonava alle corse, per sentire sul suo petto e nelle narici l’afrore del sudore e dello stallatico ammucchiato ai margini dell’aia.
Questo componimento è un elegiaco e nostalgico ritorno ai tempi, nei quali accanto al lavoro dei genitori, che sovente lamentavano la scarsità del raccolto, lui, ragazzo promettente, si abbandonava ai frizzi dell’età più bella e considerava un ingrediente pessimistico l’umore del padre rattristato per l’annata di ieri magra, anche se sudore caldo come sangue gli colava dalla fronte. Rievocazioni, queste, destinate a durare a lungo nella mente del giovane studente, che alla vanga preferisce le corse / sull’aia tra le gambe degli armenti.
Quando, dopo la nostalgica e lacerante rievocazione del gioioso passato, perduto ormai in un buio anfratto del tempo, il ragazzo, ormai uomo e pieno di responsabilità, ritorna al presente con una punta di amarezza e pungente nostalgia confessa amareggiato:
Ora, non più sudore sulla fronte come mio padre
e più non canto ai muli all’aratro;
una penna, un tavolo, dei fogli e pensieri
tanti pensieri non bastano ad alienarmi
dalla noia del giorno sempre uguale.
Nella pericope, semplice e lineare, senza slanci lirici, ma pervasa d’intima malinconia e rimpianto per il passato spensierato nei campi, sotto il sole, il poeta si piega sul presente, monotono, sempre uguale, abbrutito dagli stessi movimenti, dalle stesse incombenze. Si avverte tra i versi il malinconico velo di una scrittura molto vicina al Decadentismo, che l’autore filtra e propone con le sue esperienze personali.
Il lavoro, monotono e spersonalizzante, è richiamato, e con un certo dolore e viva coscienza della vita impegolata nei ritmi di un’occupazione alienante, nella lirica intitolata Sono come Penelope. La breve riflessione si apre con un efficace e piuttosto strano hysteron proteron, che lo allontana decisamente dal dettato omerico, nel quale Penelope, la fida moglie di Ulisse, tesseva di giorno e di notte disfaceva la tela lavorata. Pasqualino, invece, precisa di coltivare la parte migliore di sé di notte e, col silenzio delle tenebre, realizza quanto gli vieta la luce del sole. Per cui può, a ragione dire:
Sono come Penelope di giorno:
tesso la mia tela la notte.
I pressanti impegni di lavoro insieme con il monotono scorrere delle ore e dei giorni sempre uguali, conditi di amarezze e di imprevisti, spingono il poeta a dire:
Ostili come sempre gli eventi
sono come Proci che lacerano
quella trama di sogni
orlata d’ansie ancora e di ricordi
dipanatisi dalla mente
nel tardo della sera.
Nell’ampio e arioso sintagma l’animo, piegatosi su se stesso e consapevole delle difficoltà arrecate come necessario bagaglio dal male di vivere, evoca le aggressioni degli eventi spiacevoli, incarnati e potentemente richiamati dai Proci. Questi con la loro alterigia e prepotenza evidenziano il travagliato stato d’animo, che ha dovuto subire angherie e affrontare eventi non sempre piacevoli.
Alla fine di queste brevi e succinte riflessioni non posso passare sotto silenzio la significativa lirica, che come titolo reca Pater noster del 3° millennio. Questa per la sua attualità e per il rimpianto della dolorosa perdita di quei valori, che hanno caratterizzato la civiltà italiana ed europea per ben due millenni, andrebbe letta e meditata per la cruda e spietata attualità, nella quale l’uomo, abbacinato da beni effimeri e attanagliato da crescente egoismo, ha smarrito la sua Stella Polare, per inseguire l’angoscia e la vana ricerca di beni effimeri.
Il Pater noster, secondo il comune modo di sentire, è considerata la preghiera più bella sgorgata dal cuore dell’uomo. Per offrire uno spunto di seria e duratura riflessione, riporto i primi, e più significativi, versi come li ha scritti e voluti l’autore:
Padre nostro che stai nei cieli,
per santificare il Tuo nome quaggiù
abbiamo chiuso Tuo Figlio a più mandate
nelle chiese vuote e al buio, liberi così di fare,
come sempre, la sola – nostra mala volontà.
Che fatica per averlo il pane del giorno che ci dai,
impastato col sale dell’egoismo
e acqua inquinata d’indifferenza.
È duro, duro più di sempre
per spezzarlo, come dici, coi poveri
che muoiono a schiera per la fame;
e ancora il tuo regno non viene quaggiù.
Pasqualino, quasi a suggellare l’impegno umano civile religioso profuso nel sociale e nella sua silloge, parafrasa in modo nuovo, e attuale, il dettato di Cristo trasmesso dal Vangelo. Questo messaggio, sempre vivo, oggi è più di qualche tempo fa disatteso, perché l’uomo di oggi, conseguiti gli agi di una vita comoda, ha dimenticato in quali condizioni versava qualche giorno fa, e tratta i poveri e i miserabili con arroganza e crudeltà. E pure ricchi e poveri, lieti e afflitti calpestano la stessa terra e sono coperti dallo stesso cielo.
Lascio al lettore sensibile e attento ai problemi sociali l’approfondimento sotto l’spetto umano e morale alla luce delle illuminanti parole di Papa Francesco.