Le recensioni di Orazio Antonio Bologna
Considerazioni su due liriche di Milica Jeftimijević Lilić
La poetessa serba Milica Jeftimijević Lilić all’interno del complesso e difficile scacchiere balcanico è una voce di considerevole spessore e grande levatura sia sotto il profilo culturale che sotto quello morale e sociale. Segnata in modo indelebile dalle orrende e dolorose vicende della guerra, che, per circa un decennio, ha insanguinato e seminato di stragi i Paesi balcanici, Milica non ha mai cessato, né cessa, di alzare la sua autorevole voce per condannare i crimini, dei quali si sono macchiate le diverse etnie in lotta in nome di una tanto assurda quanto feroce supremazia. La sua poesia, nutrita dalla cultura prima e dall’amara esperienza di vita poi, si leva potente contro i soprusi della violenza e contro quanto un confitto armato porta necessariamente con sé, per trascinare nella rovina borghi, paesi, città; per distruggere campi, case e ogni forma di vita; per alimentare l’odio tra gli uomini, causare stragi di innocenti e infierire senza distinzione contro bambini donne anziani. In guerra l’uomo perde ogni freno e si abbandona al libero sfogo degli istinti più bassi, alimentati dalla ferocia e dalla barbarie.
Alimentata da fede grande, sincera e cristallina, Milica tende verso la ricerca costante della Verità suprema, che porta sempre con sé Pace e Fratellanza: in un Paese in pace, gli uomini sono liberi e attendono alle attività assegnate loro dalla vita; il benessere materiale conferisce serenità e tranquillità, permette lo sviluppo delle Arti e delle Scienze e, con queste, la crescita della vita civile.
Calda e, nel contempo, dolorosa è la riflessione di Milica sulla guerra, che chiama alle armi giovani mariti per imprese indegne di un essere dotato di intelligenza e di cuore. Il suo Paese, nel quale ha trascorso gli anni più belli della vita, gronda sangue e i morti si aggiungono ad altri morti. Per avere una pallida idea di quanto dolore alberghi nell’animo delle persone sensibili, di quanti odiano la guerra, la riflessione si può fermare sulla breve, ma intensa, lirica La maledizione di Penelope. La poetessa leva accorata la voce per la partenza del soldato, ormai sposo, destinato a uccidere e ad essere ucciso.
Durante la guerra l’uomo rompe ogni vincolo, ogni remora: diviene belva e non serba il minimo rispetto soprattutto verso le donne, che vengono sistematicamente violentate, stuprate, ammazzate. Non di rado nei luoghi, dove sono stanziati, non pochi uomini, che hanno lasciato a casa moglie e figli, formano nuove famiglie e dimenticano il passato. La guerra stravolge i ritmi normali dell’esistenza, cancella gli affetti più cari.
Per denunciare lo stato doloroso e deprecabile di molte donne abbandonate, di molte famiglie distrutte, Milica rievoca la storia esemplare di Penelope, la sposa, che Odisseo trovò dopo vent’anni in fedele attesa. In questa lirica Penelope diviene sulle tracce di Omero, l’icona della fedeltà coniugale, alla quale hanno volto il pensiero e l’attenzione generazioni di poeti, intellettuali, sociologi, psicologi.
Certamente il grande e valoroso eroe omerico nel suo lungo peregrinare poté stringere tra le braccia altre donne; ma nessuna soppiantò del tutto Penelope. La poetessa, per denunciare lo stato di abbandono, nel quale si trovano molte donne a causa della guerra, ricorre a un mitologema dotto, noto a quanti conoscono l’Odissea, e di sicuro impatto sul lettore. Nel rievocare il dolore di molte donne, di molte mamme abbandonate, Milica immagina Penelope, che, mentre dà l’ultimo addio al marito in partenza per Troia, gli rivolga le seguenti parole:
porterai al di là il mio volto,
mi verserai in alto mare
perché io possa riemergere dovunque ti fermerai.
Perché il dotto riferimento sia comprensibile e riveli tutta la sua efficacia evocativa, bisogna richiamare alla mente quanto accadeva tanto ai soldati che andavano in guerra, quanto ai mercanti, che si recavano a commerciare in paesi lontani. La letteratura classica è piena di notizie e puntali riferimenti. Dalla lettura dell’Odissea si viene a conoscenza che Odisseo, durante il viaggio di ritorno da Troia, si abbandona, e volentieri, a diverse avventure. Tra tutte le donne, con le quali ha intrattenuto rapporti amorosi più o meno lunghi, famose e indimenticabili sono Circe e Calipso.
La breve pericope, ancora, offre lo spunto per notare che lungo le coste, in luoghi ben individuabili e noti, c’erano le ierodule, sacerdotesse di Aštarte e Ašerah, che praticavano la prostituzione sacra nei santuari situati sulle rotte delle vie commerciali.
I numerosi santuari, la presenza dei quali di notte era segnalata da fuochi accesi, che fungevano anche da fari, erano popolati da donne, le quali, mentre espletavano il servizio cultuale, offrivano agli uomini prestazioni fisiche più o meno durature. Odisseo, anche se durante la guerra ha avuto certamente più d’una concubina e durante il viaggio di ritorno si è fermato per un congruo periodo di tempo in diversi luoghi, non riesce a dimenticare Penelope, dalla quale ritorna dopo numerose e avventurose vicende. Nel cuore e negli occhi, nonostante gli anni della lontananza, rimane sempre viva l’immagine della moglie, la quale, sebbene immagini le avventure amorose del marito, rimane in casa sola col figlio, in fedele e fiduciosa attesa del marito.
Si sa inoltre che i Greci, mentre cingevano d’assedio Troia, avevano concubine razziate nelle immediate vicinanze e che per il possesso di una schiava scoppia una violenta lite tra Agamennone e Achille.
Sensibile interprete dell’animo femminile e soprattutto della sposa lasciata custode del focolare domestico, Milica si accosta insensibilmente, senza che il lettore se ne avveda, a un’acuta e semplice analisi esistenzialista. E ciò avviene in maniera quasi inconscia, perché in Penelope il distacco proietta nella sua mente tutte le avventure amorose, cui il marito va incontro. Ma è anche consapevole, anzi certa, che Odisseo non la potrà mai dimenticare del tutto: non a caso, infatti, Milica pone in bocca a Penelope riflessioni e considerazioni di grande impatto emotivo mediante ardite metafore e col ricorso a stilemi di forte risonanza per una lirica sulla certezza e crudezza del distacco e sul dubbio dell’abbandono:
I segni per il mio viaggio lontano
dovunque tu vada lascerai,
mentre io legata dalla maledizione aspetto,
da cordicelle segrete legata,
perché tu possa illuminare il buio e la mia traccia
per togliermi le catene ogni giorno,
perché il Grande Progettista possa dire:
è passato il tempo d’angoscia,
la tentazione fu redenzione.
Dell’Esodo è l’ora.
Si intravede nei pochi versi, meditati e sofferti, la purezza della lirica e la cristallina semplicità degli stilemi, che si snodano in un tessuto narrativo be n strutturato, articolato, misurato, scandito da versi ora lunghi ora corti.
Animata da grande fede, Milica ricorre di frequente alla Bibbia per trarne immagini di rara bellezza e potenza evocativa e riproporre al lettore tanto l’eterna verità del verbum contenuto nelle antiche scritture quanto l’attualità dell’insegnamento che vuole trasmettere all’uomo del presente. La poetessa concilia e fonde nella lirica due culture, lontane e contradittorie solo in apparenza. La cultura classica e quella ebraico-cristiana trovano nell’animo raffinato della poetessa un sublime punto di incontro e di complementarietà. Con l’esodo di Odisseo da Itaca per Penelope cominciano le privazioni dell’amore, le amarezze dell’insidia, il dolore della lontananza, la nostalgia dei giorni felici trascorsi insieme, che nessuno dei due potrà mai dimenticare.
Come Penelope, anche le donne balcaniche, alla partenza dei mariti, sono certe di vivere nel cuore dei loro uomini, nei quali con il loro amore e la donazione di sé hanno lasciato segni indelebili ed esse nella maledizione della separazione aspettano avvinte ai saldi e misteriosi legami dell’Amore.
Le coraggiose e forti eroine dei Balcani in guerra, nonostante sentano in assenza dei mariti il naturale richiamo dell’amore, come legate da corde invisibili aspettano fiduciose che essi ritornino, per soddisfare i naturali e legittimi impulsi della natura: la loro redenzione consiste nell’aver resistito alla tentazione di concedersi a un altro e nell’abbandono al volere di Dio, il grande progettista.
Come per gli Ebrei durante il lungo e doloroso periodo di cattività in Egitto Dio inviò come salvatore Mosè, Milica si augura e prega che anche per i martoriati Paesi balcanici venga alla fine un uomo in grado di stabilire la pace:
Tocca a Mosè eliminare l’ostacolo,
perché la Grande Acqua si fermi,
perché tu possa attraversare il fiume
per giungere là dove la parola ti attende.
Col richiamo al grande legislatore ebraico e la suggestiva evocazione del passaggio attraverso il Mar Rosso, che costituisce per gli Ebrei l’inizio della liberazione dalla schiavitù, Milica spera che quanto prima gli eserciti in armi depongano le ostilità e attraversino l’acqua della redenzione, lascino dietro di sé gli orrori della guerra e ritornino dalle spose, alle quali sono legati dalla promessa di indissolubile amore. Questo anelito la poetessa esprime mediante la metafora dell’acqua, intesa come riscatto, come redenzione, come passaggio a nuova vita.
Nella breve pericope con intensa e pacata liricità è rievocato il sacramento del battesimo, cui ogni uomo può accedere con la deposizione delle armi e con il sincero pentimento dei mali perpetrati a danno di tanti innocenti. Il passaggio del fiume costituisce il lavacro purificatore. Con questi versi Milica entra nel buio delle coscienze incattivite e incanaglite dalla brutalità della guerra, per gettarvi un fascio di luce; penetra nell’animo assetato di giustizia e mediante l’immagine del fiume li disseta col desiderio della pace interiore. Con queste immagini di rara bellezza ed efficacia, la lirica si snoda limpida, serena, pacata e, nello stesso tempo, drammatica per le brutture commesse durante le ostilità. L’invito al ravvedimento e al ritorno a casa dell’uomo lontano è insistente:
Attraverso l’acqua, oltre l’acqua oscura,
attraverso l’anello d’argilla del giorno
io colpita dal tuo sguardo
maledico in qualunque campo
di battaglia tu sia,
che l’Onnipresente faccia
che il tuo cuore sia legato ai miei fianchi,
e i tuoi occhi alla mia mente,
la tua brama alle mie tracce…
Lo struggente desiderio che il marito torni a casa, ai suoi affetti impregna il breve brano: con crescente ansia e preoccupazione la donna implora l’Onnipotente, perché illumini il suo uomo e lo conduca ai legittimi affetti. Il ritmo, a man a mano l’emozione aumenta e il desiderio cresce, diventa concitato, incalzante, preoccupante. La donna balcanica come Penelope, nonostante la lontananza, sente che il cuore del marito intimamente legato al suo, gli occhi fissi sulle sue forme: il desiderio d’amore porta ancora i segni indelebili di un atto sublime, che non si può, e deve, dimenticare, anche se il giorno, con la breve durata e l’immancabile fine, potrebbe essere l’ultimo per il suo uomo stroncato da una raffica di mitra. Perciò ogni giorno sempre più angoscioso diventa il grido pieno di speranza e attesa: perché non vieni? Questo richiamo risuona continuamente, soprattutto quando nel monotono scorrere dei giorni nella donna il desiderio d’avere accanto il proprio uomo diventa più assillante, struggente. Con questa accorata richiesta finale Milica entra e svela i delicati processi, che avvengono tra le pieghe della psiche femminile: è l’eterna domanda di Penelope, che, insidiata e pressata dai principi itacesi, perché convoli a nuove nozze, rivolge al ricordo del marito nell’ansiosa e angosciosa attesa.
Odisseo, colui che durante il lungo peregrinare ha conosciuto luoghi e costumi di popoli diversi, ritorna spiritualmente arricchito e nell’animo di Penelope arreca insieme con l’esperienza maturata nell’assenza la sperata serenità, la desiderata gioia coniugale. In questa lirica la poetessa canta l’amore più tenero, più bello e sensuale, che unisce due esseri che si completano.
Quest’amore ancor più tenero vibra nella lirica Mi ha sfiorata lo spaio per B., che Milica di persona mi tradusse nel breve, ma intenso, incontro a Edimburgo. Nello scorrere dei versi sembra di avvertire i fremiti di Saffo, i lievi sussulti di un cuore trafitto la prima volta dalle frecce di Cupido. Questi arriva inaspettato, anche se il cuore della donna, grazie alla sua identità, avverte immediatamente l’arrivo del dio e il momento nel quale scocca i suoi primi, infuocati dardi.
La studiata reticenza incipitaria, ben costruita ed esposta con una scelta lessicale semplice e appropriata, ammanta i primi versi di sorpresa e gioia, meraviglia e stupore, come se ciò che accade non si sarebbe dovuto verificare; e con queste sensazioni la poetessa esplora la propria psiche ardente e sconvolta dall’amore, che si palesa a poco a poco, dapprima in maniera quasi impercettibile e, successivamente, quando l’Amore ha preso pieno possesso del cuore, erompe con tutta la sua irruenza e la forza travolgente. Nella serena introspezione e all’analisi sottile della sua sensibile e delicata psiche, Milica constata sorpresa e appagata:
Sono entrata tutta in questo sguardo
senz’averlo previsto, lentamente,
quasi per un destino
come in un abitato che tutto avvolge
quello sguardo mi ha abbracciata
prudente, primordiale
e un calore ha impregnato la mia mente.
In questo breve e ben articolato periodo poetico sembra che la poetessa ricalchi da vicino le orme di Saffo, ripeta le stesse emozioni provate dal giovane Catullo davanti alla folgorante bellezza di Lesbia, quando la vide la prima volta conversare con un giovane galante, ospite nella sua villa, a Sirmione. Alle prime sensazioni dell’amore, l’anima scossa avverte chiari i segni di un radicale cambiamento interiore, un rinnovamento nei pensieri, nei gesti, nelle stesse sensazioni. Ma il nuovo stato, come un mondo ovattato, l’avvolge lentamente, come lo sguardo della persona amata, mentre la mente è infiammata da inspiegabile calore. L’innamoramento è il naturale destino di ogni essere vivente, lo sbocco naturale verso nuovi orizzonti, l’apertura necessaria per la concretizzazione e la realizzazione del proprio essere.
L’anima innamorata, in seguito al cambiamento interiore e alla nuova e più tenera compagnia, non è più sola, ma vive con l’altro, per l’altro, nell’altro, come al centro di un abitato, nel quale convergono su di essa gli occhi di tutti. È, l’amore, un dono destinato a tutti; si manifesta sotto forme diverse, ma con lo stesso potere. Per la donna innamorata
di blu si è dipinto all’istante il mondo,
come un’insenatura appena scoperta.
il suo volto è diventato innocente
ha smesso d’essere cattivo.
Emerge in questo breve brano il prepotente potere e richiamo dell’amore, che con la sua presenza trasforma tutto: il mondo, devastato dalla guerra, dalla violenza e dai crimini, cambia immediatamente colore e diviene blu, senza le nubi, che offuscano la rasserenante luce del sole. All’ingresso dell’amore, che con i suoi passi felpati penetra ogni fibra e scopre le recondite insenature, nelle quali immergere le mani per attingere le gioie e piaceri più belli della vita, anche l’animo cattivo diventa buono e si schiude verso una nuova primavera, una nuova stagione, ricca di insperati e inattesi frutti. L’amore puro e intenso opera una trasformazione profonda e tutto all’intorno cambia all’improvviso.
La poetessa, che vibra tutta alla vista della natura e vi si immerge con consapevole afflato lirico, quasi di soppiatto ricorda le meravigliose insenature delle coste dalmate, che, per bellezza, paragona non senza sorpresa e meraviglia alla morfologia del corpo femminile, alla più intima e segreta insenatura, nella quale, immaginario giardino dell’Eden, è riposta, e nascosta, la fonte stessa dell’amore e della vita. L’orizzonte si dilata verso luoghi noti, dove nella segreta intimità il cuore trova pieno appagamento e risveglia ogni giorno, col sorger del sole, l’anelito alle gioie delle più dolci effusioni, che appagano i sensi e colmano di indescrivibile gioia tutto l’essere, che
svegliato da quello sguardo
si è illuminato l’essere
presagendo una cascata di sole,
una necessità d’unione con l’altro,
una pienezza che un senso annuncia,
una urgenza
a gridare l’esistenza.
In questo brano di intensa liricità, la poetessa vive, e invita a vivere, gli attimi più intensi dell’amore coniugale, che al suo ingresso sconvolge la piatta esistenza della vita, illumina, trasforma e genera vibrazioni impercettibili ma potenti per la psiche femminile e la prepara ad accogliere nel suo grembo quanto di più bello possa dar vita il corpo della donna. Milica non esita ad affermare con certezza e decisione il grande dono della donazione reciproca, che si concretizza nell’unione della psiche prima e, in un secondo momento, del corpo. Nella fisicità del contatto prende forma reale la pienezza dell’amore reciproco, radicato nella responsabilità della donazione affettiva.
Attraverso la sensibile e indispensabile unione fisica avviene l’agognata cascata di sole, che ristora l’animo e appaga l’innato desiderio di donazione e fruizione d’un dono, che si comprende e si apprezza solo con lo spirito. L’atto materiale, che consente la fusione dei corpi, è supportato e continuamente alimentato da moti spirituali, difficili da definire o misurare con mezzi o strumenti materiali o meccanici. È racchiuso in questi versi l’insondabile mistero dell’amore, che con la sua pressione e pulsione testimonia il vero senso, e l’attualità, dell’esistenza.
La donna, come l’uomo, per concretizzare e rendere appagante l’amore ha necessariamente bisogno dell’altro, che la completi e con le sue profonde vibrazioni dell’amore sensibile, le permetta di aprirsi e sentirsi un universo appagato.
Mossa e spinta d questo anelito, la donna soprattutto senza rossore o vergogna può dire:
per quel bagliore da qualche parte
è fiorito un mandorlo muto per l’attesa
un nenufero si è radicato
dopo aver ondeggiato.
due isole si sono riavvicinate
portate da una strana corrente
come se un tempo dopo il diluvio
fossero state un’isola sola.
Tutta la lirica, e questi due brani in modo particolare lo denotano in misura concreta, è permeata di un leggero e sottile erotismo quale solo una donna innamorata e perfettamente cosciente dell’amore può cogliere e cantare a voce spiegata ed evidenziare le più intime e sublimi sfumature, che, non di rado, sono estranee o poco percettibili dalla psiche dell’uomo. In questo contesto alle riposte insenature d’una natura incontaminata la poetessa avvicina volutamente la fioritura del mandorlo, diventato un’icona irrinunciabile della più sentita e delicata poesia erotica. Il mandorlo con la fioritura annuncia la presenza della primavera e richiama alla mente il tempo, nel quale le passate generazioni celebravano il culto della fecondità. Queste lontane costumanze, anche se apparentemente dissolte all’arrivo e all’imposizione di nuovi culti, sono rimaste intatte nel patrimonio culturale dei popoli e ritornano potenti col ritorno della primavera, alla fioritura del mandorlo, quando le ierodule, sacerdotesse della dea che sovrintendeva all’amore, donavano il corpo nel sublime atto cultuale dell’amore.
Ogni donna, all’arrivo dell’amore, nel segreto dell’intimità si pone come ierodula per innalzare alla Natura il sublime inno dell’Amore al dio e alla dea dell’Amore, all’Amore incarnato e personificato dai due corpi nella concreta bellezza dell’unione psicofisica.
Per inneggiare all’unione e alla fusione dei corpi Milica ricorre a metafore di rara bellezza e di profondo contenuto semiologico: ogni uomo, ogni donna è un’isola nel fluttuante oceano della vita. E queste isole nell’apparente immobilità sono mosse dall’amore, si fondono nell’amore e diventano una, per amore.
N. B. Le poesie prese in esame sono state tradotte in italiano da Dragan Mraović, che ringrazio