Le recensioni di Orazio Antonio Bologna
La verità degli anni
di Franca Donà
Quando si ha tra le mani un libro di versi, sgorgati quasi d’impeto da un animo profondamente lacerato dalla piaghe sempre aperte dell’umanità sofferente, non si resta impassibili, soprattutto se chi legge dalla Natura ha avuto la sorte di attraversare prima quei momenti laceranti, destinati a lasciare un segno indelebile nell’anima.
Nella stesura di questa silloge la poetessa ha accettato, con dolore e impotenza davanti all’ineluttabilità di forze superiori, il dettato senecano, quale si evince e dalle Lettere a Lucilio e dalla Consolazione a sua madre Elvia. Ma non nasconde, nelle recondite pieghe della poesia l’attualità e la perennità del messaggio evangelico, veicolato da esempi, che nella silloge si possono cogliere qua e là. Gli ultimi Pontefici hanno pienamente e visibilmente testimoniato tanto la caducità della vita e dei beni terreni, quanto, e in modo particolare, un’incrollabile fede nell’aldilà attraverso la sofferenza. Papa Francesco ne è solo l’ultimo testimone, che con la sua vita e, soprattutto, col suo esempio addita all’umanità sofferente, oppressa dalla morte, dalla devastazione dell’epidemia e, in questi ultimi mesi, dalla guerra, la via della salvezza mediante la Croce, simbolo della sofferenza. La poetessa evoca questo tragico scenario là dove con soli sei versi invita il lettore a riflettere sul gravissimo pericolo, che incombeva, e incombe ancora, minaccioso sull’intera umanità:
Così la pioggia
sulla piazza deserta
cammina solo il dolore
sotto il peso del mondo.
Campane e sirene
unite in preghiera.
Il titolo della brevissima lirica è Sotto il peso del mondo con il significativo sottotitolo Vaticano 27 marzo 2020, Città del Vaticano.
I pochi versi rievocano l’agghiacciante immagine di quel particolare Venerdì Santo, quando sotto la pioggia battente, nell’oscurità, avanzava a fatica, come schiacciata da un improvviso macigno, la bianca figura di Papa Francesco. Il riflesso dei lampioni sui sampietrini e sulle rade pozzanghere rendeva ancora più drammatica la commemorazione della Passione. Sulla terra erano scese le tenebre, sotto tutti i sensi, sotto ogni aspetto. In quei drammatici momenti, quando gli uomini credevano di non avere più nessuna via di scampo, la poetessa coglie e racchiude nella scarna descrizione lo sgomento e la disperazione che, minacciosi incombevano sul mondo incredulo davanti a tanta devastazione: e tutto ciò racchiude in poche parole, che dilatano l’orizzonte dell’immaginazione. Questa drammatica rievocazione può considerarsi una vera e propria Consolazione, che la poetessa rivolge a se stessa e all’umanità, mentre avvertiva cocenti le ferite provocate dal covid.
La poetessa davanti a tanto sfacelo e, soprattutto, davanti all’impotenza dell’uomo, che per la prima volta si trovava a fronteggiare un’epidemia di così vasta portata, con profondo dolore ricorda immagini, che non si sarebbero dovute non solo vedere, ma neppure immaginare: vite stroncate dal covid, chiuse nelle bare e, senza il minimo conforto né umano, né religioso, sono portate di notte con un convoglio militare, contraddistinto da una lugubre croce rossa, verso l’ultima dimora. È, questo, forse, il momento più drammatico sofferto dall’umanità piegata dalla virulenza dell’epidemia. Franca Donà ricorda il disumano affronto verso quanti avevano perso la vita uccisi con versi intrisi di tristezza e umana compassione:
Saranno ancora rondini a cantare
oltre i confini grigi delle case
oltre il lamento, la preghiera
il pianto dei soldati sopra i carri
le bare senza fiori e senza croci
soltanto il buio a benedirne il viaggio.
Anche se in controluce si avverte la presenza di Eugenio Montale, che con versi di accorata umanità denuncia con commossa partecipazioni i disumani eccidi nazisti, nella rievocazione di questo drammatico e inatteso flagello la poetessa si sgancia dal maestro e volge lo sguardo a quella piovosa sera d’inverno, quando nel sinistro silenzio della notte i mezzi militari conducevano le salme dei morti verso l’ultimo viaggio, verso l’ultima dimora. Il buio, appena diradato e reso ancora più cupo e minaccioso dai fiochi lampioni e dai fari dei veicoli, accresceva la paura e costringeva tutti a pensare sulla propria esistenza, che diventava sempre più precaria.
La morte, come si evince da Orazio, con le sue mani foriere di lutti ha bussato, e continua a bussare, con imparzialità alla porta di tutti. È quanto la poetessa, richiamandosi ai maestri del passato, trasmette con dettato magistrale e intensa partecipazione, momenti che sono stati, e sono tuttora, presenti nella vita dell’umanità.
La poetessa nella prima parte della silloge con accenti sempre nuovi e pregni di accorato lamento invita l’uomo a riflettere sul suo cammino, sulla sua drammatica esistenza, sulla sua caducità. Anche se è vero, secondo il magistrale dettato di Seneca, che l’uomo muore giorno dopo giorno e fin dalla nascita tende al trapasso, nessuno, in realtà, si ferma a meditare su queste parole, che sembrano tratte dal vangelo. Il filosofo romano, però, tra righe lascia intendere che, come recita la liturgia dei morti, la vita non viene distrutta, perché l’uomo, continuando a vivere anche dopo la morte, cambia solo stato: vita mutatur, non tollitur, come recita la liturgia del rito funebre. Nonostante ciò il distacco dalle persone care è doloroso e lascia nei superstiti ferite difficilmente rimarginabili e dolori, che neppure il tempo riesce a lenire. La ferita, accompagnata da crescente e cocente dolore, affiora nei momenti più tragici per ricordare la caducità dell’esistenza umana e, nel tempo stesso, la debolezza dell’uomo davanti a elementi naturali, i quali, superiori alle forze dell’uomo e difficili da comprendere, lasciano in chi non nutre l’anima di fede e di speranza disperazione e abbandono. Sul sarcofago, che copre le spoglie del cardinale Ausias Despuig, nella chiesa di Santa Sabina sull’Aventino, a Roma, si legge la significativa espressione di fede nella futura sopravvivenza: ut moriens viveret, vixit ut moriturus: per poter vivere dopo la morte, visse come chi stesse per morire.
Franca Donà interpreta queste fasi della vita con finezza e sensibilità e riversa il frutto della sua riflessione in versi, che sembrano vergati tra lacrime e sangue: si piega con dolorosa compassione su quanti sono stati strappati agli affetti dei loro cari dall’epidemia, che, come mostro crudele e vorace, si è abbattuto con inaudita virulenza sull’umanità trovata impreparata. Anche la poetessa, secondo la felice intuizione di Pascal, è più che convinta che «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo … Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: questo il principio della morale».
La poetessa, animata da questo principio di particolare rilievo per la vera dignità dell’uomo, nel prosieguo della lirica dice:
ci toccherà aspettare la primavera
restare dentro il nido e dal balcone
mandarci baci tra le lenzuola stese
come se fossero bandiere al sole
senza toccarci, da lontano eppure
non siamo stati mai così vicini.
Senza trascurare lo scorrere delle immagini, sarebbe opportuno fermare un attimo l’attenzione sull’ultimo verso per percepire la profondità culturale e poetica, che ha dato vita a un’osservazione e a una presa di coscienza, che sembravano perdute per sempre: la pandemia ha permesso di scoprire la vicinanza, la fratellanza; ha dato all’uomo di scoprire la sua identità come «essere politico», ma anche la sua «dimensione sociale», che sembrava perduta per sempre. Nella lirica l’ansia di ritrovarsi, il frenetico correre dell’uno tra le braccia di un altro è dato dal sapiente e scaltrito uso dell’enjambement, dalla pressoché totale assenza della punteggiatura, dalla calcolata spezzatura del verso, nonché dalla studiata alternanza di suoni cupi e chiari.
Non sfugge all’attenzione l’accurato uso della metrica, che Franca adopera con estrema disinvoltura. Nell’ultima pericope citata, solo per esempio, nei primi quattro versi si alternano senari doppi ed endecasillabi. La lirica è chiusa da due endecasillabi interessanti per struttura fonica e lessematica, che lanciano lo spirito accumunato nel dolore verso l’infinito con la sonorità dell’ultimo verso, nel quale prevale la non casuale iterazione della i.
Mediante l’ultimo lessema della lirica, mediante il tangibile e sensibile percezione del contatto fisico la poetessa invita a volgere lo sguardo verso un orizzonte più ampio, che abbraccia l’umanità intera e la proietta verso la sua essenza metafisica in quell’abbraccio primordiale, fondato sull’amore e sull’eguaglianza.
Il titolo della silloge è tratto dal verso incipitario dalla terza lirica:
La verità degli anni conta i nodi
lo scricchiolio delle ossa
e vene azzurre di mappature agresti.
La poetessa sa bene che gli anni scandiscono il tempo, che, secondo l’amara costatazione di Virgilio, scorre in modo inesorabile; richiama alla sua mente il disperato grido di Foscolo, il quale ne I Sepolcri non senza un velo di tristezza scrive: «l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo».
Nella breve pericope la poetessa relaziona il tempo con gli acciacchi causati dagli anni, che conducono in modo inesorabile alla trasformazione-deformazione del fisico fino al cedimento finale, nel quale l’uomo, sinolo d’anima e corpo, passa a un altro stato, comunemente chiamato morte.
Le mappature agresti, che poetessa non a caso pone a conclusione della prima strofa, riconducono immancabilmente al poeta greco Archiloco, il quale, incontrando Neobule ormai sfiorita, annota con amarezza che sul suo volto reca i segni lasciati dall’aratro su un campo arido.
Ma tutta la prima parte della silloge è imperniata sul concetto di morte, accentuato dall’epidemia e resa più lugubre e minacciosa dall’angoscia, che inconsapevolmente provoca nell’animo, avvilito dalla precarietà dell’esistenza. Ma dal triste presagio del disfacimento Franca trova la forza di vivere nella funzione eternatrice della poesia, cui l’umanità deve tornare per ritrovare la vita e l’immortalità. Esemplare, a riguardo, è la breve lirica intitolata Serve tornare alla poesia, perché è l’unico mezzo, che permettere di essere ricordati e continuare a vivere nella mente dei posteri.
Tornare oggi alla Poesia, dopo la sistematica demolizione dei grandi nomi, che hanno reso nel mondo esemplare la nostra gloriosa Letteratura, è un po’ difficile, perché chiunque ha avuto la ventura di imparare a leggere e a scrivere si sente già colto e si abbandona, forse in modo inconsapevole, a un’incontrollata verbigerazione, con la conscia consapevole e con la segreta speranza di acquisire notorietà. Nonostante ciò bisogna tentare l’approccio alla poesia, perché gli «occhi frugano l’invisibile / il verso della luce oltre la crepa». La luce che va oltre la crepa rende eterno il nome di chi riesce a penetrare nel profondo dello spirito e svelarne i riconditi meandri, soprattutto se sono degni d’essere conosciuti.
Orazio, infatti, non senza ragione scrive: «Ci furono innumerevoli eroi ancor prima di Agamennone, ma la lunga notte avvolge tutti illacrimati e ignoti, perché non hanno avuto un poeta che li celebrasse». La poetessa, però, quasi incredula e travolta dallo squallore causato dall’epidemia, non canta la guerra contro la virulenza del covid, ma la bellezza e la gioia della vita, mediante l’emblematico e pregnante richiamo al «… fiore rosso sui binari / un fiore rosso sulla macchia grigia».
Tutte le liriche contenute nella silloge, divisa in due parti quasi uguali, sono legate dal tema della morte, che compare una sola volta nella lirica Il pianto dei violini, nella quale ricorda il disastro ambientale causato dalla tempesta Vaia nel 2018: «Sul terreno disfatto / gli alberi urlano la morte / divelti …»; nel carme La salvezza innocente del sogno si legge «la terra che odorava di vita già morta» e in Requiem per una madre la poetessa scrive «e piango mia madre, il suo nome tra i morti».
Nella prima della silloge la poetessa si china davanti al dolore e al pericolo, che sovrasta l’umanità; nella seconda, accantonato l’universale, passa bruscamente al particolare con accenti più cocenti, perché il suo affetto più grande, l’origine della sua stessa esistenza, la mamma, è stata portata via dalla morte. La poesia, in questa seconda fase, assume un tono più intimo, ma non meno doloroso: prima era coinvolta solo sotto l’aspetto emozionale, ora anche, e soprattutto, sotto quello affettivo. Alla prima parte la poetessa non dà alcun titolo, uno scarno, ma significativo, A mia madre alla seconda. In tre lessemi Franca condensa tutto il dramma del suo dolore e proietta sul lettore il peso che la madre ha nella vita di ciascuno.
La poesia diventa a poco a poco sempre più intima, vive sul filo dei ricordi, evoca i momenti più teneri e toccanti, che solo la sensibilità d’una donna, e d’una mamma, può debitamente comprendere e trasmettere senza l’enfasi della retorica. In questa sezione la poetessa, messi da parte alcuni luoghi comuni, ma non troppo, e sempre scontati, rivela se stessa, apre il suo animo, dischiude davanti a tutti il pianto sincero, che sgorga dal profondo del suo essere, ormai orfano, lasciato a se stesso, perché prosegua da sola il corso della vita.
Riallacciandosi all’ultimo viaggio compiuto dalla mamma verso la dimora definitiva, Franca, mediante una ben studiata metafora, così apre il carme incipitario:
Avrei voluto continuare a navigare
senza turbare il bianco d’ogni pagina
restare a galla tenendoti per la mano
tu mia mano tesa, mio sempre.
A nessuno sfugge la presenza di Catullo, il quale, dopo aver solcato diversi mari, giunge sulla tomba del fratello, per rendergli i dovuti onori funebri. È, questo, uno dei componimenti più celebri e toccanti del Liber, nel quale il Veronese affronta una tematica molto intima e privata: l’inconsolabile dolore per la morte del fratello. Il testo di Franca, come quello di Catullo, si può leggere sotto una doppia dimensione: se da una parte si nota uno strettissimo, e naturale, legame affettivo, descritto con lessemi e sintagmi, i quali, pur nella polisemia strutturale, schiudono al lettore dimensioni spesso evanescenti, dall’altra nell’incisiva brevità dell’accorato endecasillabo: «Non ho udito mai il suono di paura», nel quale la paura, pur nella sua astrattezza, si incarna nell’ens cogitans per prendere corpo, per diventare forma sostanziale di uno stato di disagio soprattutto interiore. È proprio questo verso, che, nella studiata posizione rispetto a quanto segue, evidenzia la spiccata sensibilità della poetessa, la quale, nonostante la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte, continua il contatto con la persona scomparsa mediante un sincero e accorato dialogo «col cener muto», sintagma coniato da Catullo, ripreso dal Foscolo e continuato da Franca, la quale lo adopera per continuare il contatto con la madre.
Nella densa e sentita lirica, che introduce il lettore in questa parte del libro, si trovano tutti i lessemi relativi alla sfera semantica tanto del lutto quanto del dolore, che, nonostante passino i giorni e gli anni, non accenna a diminuire. Anzi, al pensiero della madre affiorano ricordi mai affievoliti, anche se riposti in un angolino del cuore, dal quale balzano fuori all’improvviso per acuire il desiderio di avere accanto la persona più amata.
Riflettendo sulla caducità dell’essere umano, alla poetessa non sfugge che a momenti belli e pieni di gioia sarebbero subentrati altri, intrisi di lacrime e di dolore, nonché il distacco finale, il più doloroso di tutti, perché la madre, più del padre, al figlio porta via parte di sé. Nello stendere il carme incipitario, Franca ha davanti agli occhi il perenne monito liturgico: «Ricorda, uomo, che sei polvere, e polvere ritornerai».
Questo significativo e pregnante sintagma, racchiude e ricorda a tutti gli uomini, soprattutto quando si credono onnipotenti, la caducità e, soprattutto, la brevità della vita; ed è per questo motivo che ancora oggi viene pronunciato dal sacerdote il Mercoledì delle Ceneri, mentre cosparge di cenere il capo dei fedeli.
Nel silenzio della solitudine, nonostante sia rassegnata al non ritorno, la poetessa si rivolge ancora alla madre come se fosse lì, accanto a lei e nel silenzio accorato della sua anima ferita le susurra:
Non ho udito mai il suono di paura
le tue labbra di miele cuciono silenzi
nel pudore di una madre, le radici
sono braccia che non conoscono abbandoni.
La poetessa in questa sentita pericope, scritta col sangue ancora grondante dalla dolorosa ferita, invita a una riflessione sotto l’aspetto sia antropologico, sia, e soprattutto, teologico, il quale non conferisce nel modo più assoluto un quadro eteronomo alla riflessione sullo scottante tema della sofferenza umana. Questo particolare aspetto dell’uomo religioso per natura, secondo la felice intuizione di Seneca e, in modo particolare, di Gerardus van der Leeuw, permette di arricchire l’aspetto antropologico della spinosa questione, prendendo le mosse dall’intima religiosità dell’uomo, presente e nelle Scritture e nelle culture fiorite nel Vicino Oriente già diversi millenni prima di Cristo.
Nella lirica, volutamente intitolata Il nostro viaggio, la poetessa parte dalla personale esperienza di donna naturalmente credente, che considera la vita dell’uomo sulla terra come un «viaggio», anzi il «viaggio» per antonomasia. L’uomo durante la vita terrena non viaggia da solo, ma insieme a innumerevoli altri uomini, che, prima o poi, tendono verso la medesima meta. È bene, a questo punto, riferire un’interessante epigrafe sepolcrale, conservata nella chiesa di San Francesco a Fondi, in provincia di Latina:
Tendimushuc omnes metamproperamus ad unam:
omnia sub legesmorsvocat atra suas.
È un distico, che, reso in italiano, invita riflettere che tutti siamo in cammino verso un’unica e identica meta, perché la nera morte tiene tutto sotto le sue leggi. Anche qui l’ignoto autore mette in risalto il tema del viaggio, che tutti gli uomini sono per natura obbligati a compiere e a lasciare alla fine del percorso terreno un’esperienza spesso traumatica nelle persone care. Lo scrivente, partendo dall’esperienza personale, desidera condividere con Franca alcune riflessioni sul dolore, che, oltre ad essere naturale in un figlio, sovente apre un particolare periodo di fragilità.
Nella rielaborazione e assimilazione del dolore causato dalla dipartita della persona più cara, la poetessa, mentre con accenti di intenso lirismo rievoca i momenti più belli trascorsi insieme nel cammino della vita, non adopera mai lessemi come dolore, patimento, sofferenza, tipici di chi è stato privato di un affetto: è, infatti, consapevole che sotto la spinta delle scienze sanitarie, tecnologiche e umanistiche parlerebbe di sofferenza, di patimento, di dolore e di sofferenza con categorie mentali, che svierebbero il lettore dall’obiettivo, cui quei versi tendono veloci come una saetta.
Queste categorie, anche se mirano a illuminare i vari aspetti di questa realtà, ne parlano in modo speculativo e oggettivo, senza penetrare nel vivo della coscienza e, in modo particolare, nell’animo di chi si trova davanti al dolore.
Quando, infatti, il dolore diventa esperienza della persona, le scienze non sono più idonee a comprendere e ad analizzare tutta la complessa realtà e il dolore, che in quel particolare momento, diventa, «mistero», perché non è una realtà che non si comprende, ma è, invece, una realtà che ci comprende. Essa è, al tempo stesso, un’esperienza umana e trascendente, che coinvolge più la psiche che il corpo. Si pone come esperienza dura e terribile, ma diventa anche causa e fonte inesauribile di provocazioni e di sfide.
Per tal motivo Franca nei primi versi della lirica Miraggi scrive:
Noi col miraggio negli occhi
di un viaggio senza carovane
la riva verde e rose rampicanti
e il fiume che canta sottovoce.
Alla disperata sperimentazione del proprio dolore, che porta in modo inevitabile verso un’esperienza di rottura, di disastroso fallimento, di frammentazione dei sogni e della realtà, la poetessa preferisce intessere con la persona scomparsa un dialogo costellato di immagini, che, sebbene comuni e abusate il più delle volte in maniera maldestra, contribuiscono a ricreare e rivivere la «comunione d’amorosi sensi», intensamente vissuta durate il viaggio sulla riva verde del fiume o davanti a un cespuglio di rose appena sbocciate.
Tra le righe di questa breve, ma significativa, pericope sembra che la poetessa abbia bene introiettato il dolore spirituale, che, non di rado, nasce dalla difficoltà di conferire un senso non solo alla propria vita, ma anche al dolore conseguente la morte. ma diventa, nello stesso tempo monito e guida, per affrontare con coraggio le sfide della vita, soprattutto le più dure.
Nella seconda parte della silloge, come nella prima, anche se non si trova mai il nome di Dio, trapela una spiritualità intima, naturale, lontana dalle fragorose chiassate di logorroici bigotti. La spiritualità di Franca, colta nella varietà della natura, nel chiuso delle mura domestiche, nell’amicizia, non cade nel vuoto e assurdo panteismo, che vede negli elementi la causa o la panacea di tutti i mali. Anche se non esplicito, si legge tra le righe delle liriche dedicate alla madre, l’evangelico abbandono alla volontà di Dio, come si può desumere dai versi finali, tratti dalla lirica Prodigio d’azzurri:
Quanto dolore e quanta tenerezza
quando di sale piangono le madri
e il vento porta al cielo la preghiera
di gemme trattenute nella gola
richiamo di radici e ancora fiore
d’azzurro che ha prodigio, non confini.
Il credo della poetessa non si colgono solo qui, ma anche nella prima parte, nella quale la pandemia incombe minacciosa sull’umanità indifesa. Nella stesura di questi versi Franca manifesta un’intima spiritualità, che non estrinseca mediante eclatanti manifestazioni esteriori, ma con la silente e dolorosa riflessione sulla fragilità dell’uomo, che trova il suo vero destino nella consapevolezza di sé, in cammino verso la meta del suo viaggio terreno, come si legge nella lirica Se avrò le ali:
Stendilo piano, il viaggio
se mai avrò le ali per volare
per fare come fanno poi le rondini
quando ritornano per sempre al nido
quando ritornano per sempre al viaggio.
Il ciclo continuo della vita, abilmente distribuito nelle due parti della silloge, anche se velato di intima e commossa mestizia, costituisce il tema dominante, che si dipana con virtuose e accorte variazioni, sì da accompagnare il lettore a ritrovare se stesso nella sua fragilità fisica e nella forza del suo animo, sì da vedere accanto alle tristezze e angosce, tra le quali si dimena, quel luogo, dove può contemplare
veli corvini di vergini spose
prostrate sul legno a tossire preghiere
i ginocchi dolenti in aria d’attesa
quasi ad aprire improvviso il soffitto
al gutturale amoreggio di vecchi piccioni.
La poetessa, però, non si chiude in se stessa, nel suo dolore, ma volge uno sguardo e un grido di denuncia sulla violenza perpetrata su esseri innocenti, su donne indifese, soprattutto durante quelle guerre dimenticate, delle quali ormai nessuno più parla.
Orazio Antonio Bologna