L’HUMANITAS NEI POEMI OMERICI
di Orazio Antonio Bologna

Oggi, purtroppo, i poemi omerici per un insano modo di concepire la cultura sono del tutto abbandonati: non c’è posto, si sente da più parti, per anticaglie inutili, che non arrecano nessun giovamento ai ragazzi di oggi. Non si può sentire niente di più falso e, soprattutto, ingannevole, perché per sec oli insieme con la grande Poesia hanno veicolato valori, che costituivano gli inizi di una salda formazione umana. Attraverso i personaggi e le reazioni, che essi suscitavano, il lettore spontaneamente evitava i difetti riscontrati, messi inevidenza e sapientemente condannati dal Poeta, e imitava i buoni sentimenti, riscontrati in personaggi, a torto considerati minori.

È vero che i primi approcci erano in italiano perché i testi originali erano letti solo al liceo, dove oggi, probabilmente, si dedica loro solo un pallido accenno. Ma si insiste su questioni, che sarebbe meglio lasciare allo specialista, per introdurre il giovane lettore nel complesso mondo rievocato dal poema epico.

I primi approcci in italiano avvenivano in lingua italiana nelle splendide rievocazioni di Vincenzo Monti per l’Iliade e Ippolito Pindemonte per l’Odissea, due insuperati maestri di interpretazione, di ricreazione, di rievocazione degli avvenimenti, vestiti di sublime Poesia. Il giovane lettore veniva a contatto con i grandi capolavori, che sono alla base della civiltà europea, e con la Poesia, capace di suscitare sentimenti e reazioni di ogni tipo. Ad imitazione degli endecasillabi dell’uno o dell’altro interprete, spesso il giovane discente si cimentava nella scrittura poetica di eventi per lo più banali. Ma costituivano un ottimo inizio all’educazione verso la Poesia, un’arte, che in seguito, diventava appannaggio solo di pochi.

Quando si leggevano i poemi omerici, però, si insisteva, e fin troppo, sui fatti bellici, sulle battaglie, sulle stragi, sulla violenza, che si verificano inevitabilmente, ancora oggi, in tutte le guerre. Non si accennava, invece, alla lealtà verso il comandante e verso i commilitoni; al rispetto di norme dettate dalla legge naturale, che ogni personaggio sentiva dentro di sé e ne seguiva i dettami; al rispetto della persona anziana e della donna, spesso preda di guerra e strumento di piacere; alla famiglia e all’amore coniugale; all’osservanza delle norme fondamentali, che regolavano il diritto-dovere dell’ospitalità; del riguardo verso il nemico sconfitto e ucciso.

È vero che l’Iliade inizia con il comportamento arrogante di Agamennone vero Crise, sacerdote di Apollo, venuto nel campo greco per riscattare la figlia. È vero che Agamennone, per placare l’ira del dio, restituisce di mala voglia Criseide al padre, ma commette un altro, e gravissimo, gesto di arroganza: toglie d’autorità la schiava Briseide ad Achille, il quale, irato, prima rimprovera aspramente Agamennone, che riconosce, tuttavia, come suo capo, e poi si ritira dalla guerra. Di qui partono una serie di eventi bellici, sulla lettura e commento dei quali si esercitava l’acribia del giovane discente.

Non si poneva in risalto, ad esempio, l’infame gesto di Paride, che aveva sedotto e portato con sé a Troia la bellissima Elena, moglie di Menelao, che l’aveva accolto e ospitato. Priamo disapprova il gesto del figlio, ma questi non gli dà retta. Si accennava appena il bellissimo episodio, nel quale il Poeta rievoca con una poesia di grandissima levatura l’ultimo incontro di Ettore con Andromaca all’interno delle porte Scee. Lì era la moglie Andromaca col figlio Astinatte, tenuto in braccio dalla nutrice. Quando la famiglia, divisa dalla guerra, si ricompone, il Poeta rimuove il fragore delle armi, le grida di guerra, i lamenti e i pianti dei feriti e concentra la sua attenzione sul padre, sulla madre e sul figlio, il quale, nel vedere le armi, inorridisce e nasconde il viso nel grembo della nutrice. Non si insisteva con la debita attenzione sull’amoroso e affettuoso dialogo, che, magistralmente interpretato e ricreato dal Monti, si svolge in un silenzio e un’atmosfera surreale. Il Poeta incentra tutta la sua attenzione sulla famiglia finalmente riunita e sul dialogo che intercorre tra marito e moglie. Questa, paventando la morte al marito, teme per sé e per il figlio, quegli, presago della vittoria dei Greci, vede profilarsi all’orizzonte la schiavitù della moglie e la triste sorte, che si abbatterà sul figlio. Ma prima di partire, per riprendere il suo posto a capo delle truppe troiane, prende in braccio il figlio e, nell’offrirlo a Giove, gli augura uno splendido avvenire, in difesa soprattutto della patria. Gli augura che i Troiani, nel vederlo tornare dalla guerra carico di gloria e di bottino, dicano: «Non fu sì forte il padre».

Dopo il violento e crudele duello tra Achille ed Ettore, si insiste, e giustamente, sulla vendetta del vincitore, il quale senza pietà infierisce sul cadavere del nemico vinto e ucciso. Achille nutriva verso Ettore un odio implacabile.

Dopo il duello c’era l consuetudine che il vincitore, dopo aver spogliato delle armi il nemico morto, restituisse il corpo ai suoi cari per i funerali. Achille viola questa legge e suscita l’indignazione della divinità. Priamo, infine, mosso da amore paterno, di notte si reca nella tenda di Achille e gli chiede il corpo del figlio per le pubbliche esequie. Achille dapprima si irrigidisce, ma quando Priamo gli ricorda il vecchio Peleo, al quale era legato da rapporti di ospitalità e di amicizia, e quanto desideri la presenza del figlio, quando qualche prepotente lo offende, Achille piange, alza il vecchio Priamo prono ai suoi piedi e restituisce il cadavere di Ettore, dopo aver ordinato alle schiave di lavarlo e cospargerlo di profumi.

Col pianto di Achille, si è giustamente osservato, comincia il rinascimento greco e, di conseguenza, quello occidentale.